Sogni di libertà Gambardella scruta le stanze a cielo aperto
Ènotte e il caldo dell’estate siciliana si fa sentire. Mi guidano alla camera in una situazione irreale tanto il silenzio è denso, la porta pesante si apre, poi un lungo corridoio buio e, sulla sinistra, un taglio nella parete che conduce alla stanza da letto. La sorpresa è forte; lo spazio è circolare, nero, verticale, occupato da un letto che ha la stessa forma. Mi muovo cieco lungo la parete liscia finché non trovo un interruttore, lo giro e un rumore metallico invade la stanza; guardo in alto e mi accorgo che il tetto si sta aprendo, lento, svelando una meravigliosa stellata. In quel momento l’aria calda comincia a salire rendendo l’ambiente accogliente. Il sonno mi porterà via, perso nel decifrare il cielo notturno, le costellazioni e il rumore del mare poco lontano.
L’esperienza della Torre di Sigismondo di Raùl Ruiz all’interno del potentissimo Atelier sul Mare a Castel di Tusa e ideato trent’anni fa da Antonio Presti, è una delle immagini più immediate quando si pensa alle stanze a cielo aperto e a tutto quello che continuano a rappresentare nella storia dell’Umanità.
Perché questa strana tipologia architettonica, che apparentemente non ha funzione reale ma che ritroviamo a tutte le latitudini, ogni volta, con forme e misure differenti, sembra raccontarci qualcosa di molto arcaico e profondo di cui abbiamo ancora bisogno.
Sono mura costruite che delimitano un confine, protezione artificiale ma insieme apertura accogliente a Madre Natura che stabilisce un legame forte tra cielo e terra. Le stanze a cielo aperto sono una misteriosa terra di confine tra il mondo nomadico e quello stanziale, tra il chiuso della casa e il paesaggio che la circonda, tra i riti domestici e gli dei che imperversano là fuori, definendo un terreno ambiguo in cui realtà e il mito si abbracciano.
Ogni tenda con il suo occhio aperto al cielo è così, ma anche i cenote Maya, il Pantheon romano, la Villa Adriana, il giardino pensile del Palazzo Ducale di Urbino o le centinaia di stanze aperte che proteggono orti e giardini dai venti marini lungo le coste del
mondo.
E questa immensa stanza blu che è il Mare Mediterraneo è diventata la fonte d’ispirazione per un poetico lavoro dell’architetto napoletano Cherubino Gambardella dedicato alle «Open Air Rooms» ed esposto fino all’8 gennaio 2018 presso l’Istituto Italiano di Cultura di Chicago nell’ambito della Seconda Edizione della Biennale Internazionale di Architettura.
Quattordici tavole compongono una stramba stella marina che invade la parete di colori, visioni, frammenti di memorie che incrociano indifferentemente antico e moderno ricordandoci che questo «mare interno» ha il potere di tenere tutto insieme, anche in un tempo come il nostro che lo vede testimone di tragedie immani.
Gambardella non è alieno da questo genere di esperienze provocatorie e il suo ossessivo lavoro sui collage è nutrimento per il suo percorso tra progetto e teoria, ma la scelta delle stanze a cielo aperto codegli me cuore di questa riflessione in forma d’immagini è molto interessante perché pone al centro uno spazio che apparentemente non ha funzione.
Liberarsi dalla dittatura della funzione è infatti uno obiettivi che una parte evoluta dell’architettura contemporanea sta provando a cercare, per generare spazi resistenti al tempo e agli usi, universali perché poliedrici, elementari perché parlano al cuore delle persone offrendo possibilità abitative fluide come è il tempo che abitiamo.
In questa quadreria contemporanea che mescola felicemente Pompei e Villa Malaparte, il giardino surrealista per il signor Beistegui di Le Corbusier ai sogni mediterranei di Schinkel e Gilly, James Turrel e le ville capresi di Cosenza, Rudofsky e Ponti (è tutto nel catalogo, segnalato qui a fianco), troviamo le radici della nostra cultura e, insieme, frammenti fragili per immaginare futuri diversi in cui potrebbe essere emozionante recuperare quel legame indissolubile tra cielo e terra che sembriamo aver smarrito.