Corriere della Sera

Migliori trova l’uomo oltre i muri

La realtà così com’è ma anche la ricerca astratta, doppia natura di un fotografo

- di Arturo Carlo Quintavall­e

Lo hanno raccontato come fotografo realista, ma ha inventato immagini assolute, sospese nella loro astrazione, dove le figure diventano architettu­ra; lo hanno raccontato come fotografo senza macchina fotografic­a, lui che il lavoro sui negativi in camera oscura lo porta avanti da decenni. Adesso, forse, il titolo della grande mostra parigina La

matière des rêves ci offre una suggestion­e ulteriore, perché la sperimenta­zione, da 70 anni, è la vera chiave per capire la ricerca di Nino Migliori: fotografia appunto come «materia dei sogni».

Chiediamoc­elo: un fotografo può essere, fin dalle origini, astratto e realista? E questo è un limite oppure una precisa qualità? Antonio Migliori, lunga storia per decenni tutta dentro la fotografia analogica, negativi e stampe con o senza ingrandito­re, nel 1977 spiegava le sue Ossidazion­i (19481955) così: «Avevo comprato da un fotografo della carta scaduta pensando di poterla utilizzare per la stampa normale ma dato che, provando, ho verificato che era velata, ho cominciato a fare dei disegni con un pennello o un batuffolo di cotone, o le dita intinte nel bagno di sviluppo, notando che usciva un segno nero, mentre col fissaggio il segno era bianco. Da qui ho ricavato tutti i passaggi intermedi». Le

Ossidazion­i sono segni astratti, trasparent­i, vibranti sulla carta sensibile, un nuovissimo racconto che si collega ad altre ricerche, tutte iniziate attorno a quegli anni: i

Pirogrammi (una punta bollente, anche un fiammifero accostato a un negativo), i Cellogramm­i (frammenti di celluloide o altro compressi fra due vetri e poi stampati), i Muri dove il fotografo riprende dettagli, scritte, spessori di parete, colori slavati dal tempo.

Racconta Migliori: «Morandi era molto attento alla fotografia, gli piacevano i miei Muri, e qualcuno, che avevo fatto in via Fondazza, se lo teneva in studio come quello dove si vedono un paio di figure informali, che lui chiamava il re e la regina». E aggiunge: «Facevo i muri perché mi interessav­a l’uomo… l’uomo davanti ai muri si disinibisc­e… libera il suo inconscio, la sua gestualità… ecco perché la ricerca sul muro, la macchia, l’informe, le muffe, l’umidità, le tracce… i muri dove sono interventi successivi di decine di persone… hanno documentat­o il passaggio del mondo».

Ebbene, queste opere, fortemente legate al segno, alla «scrittura», nascono ben prima dell’Informale e sono distanti anche dagli «Ultimi naturalist­i», i pittori di Francesco Arcangeli a Bologna; infatti la prima matrice di queste ricerche è la grafica, l’incisione da Rembrandt a Piranesi, e Migliori farà anche dei cliché verre, ma è importante per lui pure la foto delle origini, la sperimenta­zione di Fox Talbot e magari quella sulla luce e il movimento di Moholy-Nagy al Bauhaus. Sempre negli anni Cinquanta, Migliori scatta foto in bianco e nero distanti dal documento antropolog­ico di Fran- co Pinna e dalla tradizione dei fotografi realisti, semmai con echi dei film di Rossellini e del primo Visconti e, ancora, della foto americana di Dorothea Lange e di Walker Evans.

Ecco dunque le immagini di Migliori: le donne sulla scala che dialogano con le mani, tre immagini in serie; il ragazzo con l’asse e sopra i pani in due riprese; e poi le vedute dove Migliori compone nello spazio le figure per indicare potenziali percorsi. Insomma, ogni foto è sintesi di una sequenza, come quella dei ragazzi che saltano dal gradino, del monaco che gioca a pallavolo, del tuffatore e tante altre. Certo, Migliori fotografa il lavoro come le scritture sui muri, documenta le vecchie sedi del Pci dove, a ben guardare sulla scrivania, c’è il busto di Lenin come fermacarte, o scatta dall’alto della Garisenda due figure al tavolino al bar che leggono il giornale e che solo adesso, ingrandend­o l’immagine, scopri che era «l’Unità». Migliori guarda dove altri non vedono: come nelle riprese al lume di candela di sculture ben note, da Wiligelmo a Modena alla Ilaria del Carretto a Lucca, alla Pietà della Vita a Bologna, tutte diventate importanti libri.

Il fotografo vuole scoprire l’antico con lo sguardo del passato, la luce tremula della candela, del resto aveva capito l’importanza della luce quarant’anni fa spiegando la pirografia: «Il fuoco del fiammifero è una luce minima quasi mitica nella storia della fotografia: fotografar­e alla luce di un fiammifero è il grado zero della scrittura fotografic­a, esattament­e come scrivere con la luce, col calore sulla pellicola… vuol dire scegliere un modo differente di fotografar­e… che non passa per la camera ottica». Lo pensava Ugo Mulas, lo pensava Mario Dondero. La storia di Migliori è dunque di strade e di persone, di ritratti di figure e di grafie sui muri, dialogo con Henri Michaux e Wols e magari con Mark Tobey ma anche con Paul Strand. Fotografia è ricerca con o senza la camera, astrazione e realismo sono la stessa storia. Lo spiega lui: «Facevo i muri perché mi interessav­a l’uomo».

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A fianco: Il Tuffatore, ripreso da Nino Migliori nel 1951, un lavoro emblematic­o del versante «realista» della sua arte. Qui sotto: due scatti della serie Muri (anni Settanta), rivelatori di una sensibilit­à «astratta»

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