VIVERE LA VITA È GUARIRE COMUNQUE
«Malgrado i ventisei farmaci quotidiani non sono ancora diventato immortale. Ma non dispero». Immortale non lo è diventato, Severino Cesari, scomparso il 25 ottobre scorso a 66 anni, ma è riuscito a vivere più di una vita, proprio quando sapeva di stare per perderla. Basta leggere Con molta cura, il libro uscito postumo da Rizzoli (pp. 430, 19), un trattato su «la vita, l’amore e la chemioterapia a km zero» come dice il sottotitolo, per rendersi conto di quanto i suoi sensi siano stati all’erta, di quanto la sua curiosità sia stata ampia. Dal 2015 al momento della sua morte, Cesari, poeta, scrittore, editor (ha diretto per vent’anni, con Paolo Repetti, Einaudi Stile libero), ha tenuto un diario su Facebook. Un diario della malattia e della difficile, ma per certi versi esaltante, manutenzione del suo corpo provato da un trapianto di rene quarant’anni prima, poi colpito da tumore al quarto stadio, sciame ischemico e complicazioni varie. Severino, Seve per gli amici, con le parole ha vissuto e con le parole si è curato, scrivendole, dapprima, sul social network dove ha condiviso con amici, conoscenti, addetti del mondo editoriale, lettori e devoti, la luce sull’Esquilino, quella che vedeva nella casa in cui viveva con la compagna Emanuela e il figlio Lorenzo, il gatto Ortensio detto Ortensietti, e il maltese meticcio Theo.
Nelle sue giornate c’è un insopprimibile respiro d’avventura, tanto più disperatamente vitale quanto più quelle sono ingabbiate nella rigida routine medicale a cui si deve attenere. Severino rinomina il mondo intorno a sé, lo ricrea a suo piacimento. Sotto il suo sguardo luoghi e persone si trasfigurano e si mescolano alla materia prima di cui è fatta la sua vita: i libri. La visita a Quantico, l’ospedale che lo cura, gli incontri con «il Santo professor Alato», la vaporosa «dottoressa Volantis», l’infermiera Miss Universo, Suor Magenta, il rene trapiantato chiamato Emilio, il pino Achille con cui dialoga dalla finestra dell’ospedale sul nuovo libro di Francesco Abate, convivono con la presentazione dei libri alla rete vendita, con la lettura di Moby
Dick nella traduzione di Ottavio Fatica, con la presentazione del nuovo romanzo di Simona Vinci, con il ricordo dei tre giorni passati con la troupe della Grande bellezza. «Accogliamo tutto ciò che succede “ritenendolo necessario, amico e scaturito dalla stessa nostra sorgente”» scrive Cesari citando Marco Aurelio.
Non che manchino i momenti di sconforto, i nervosismi, i rimproveri e le delusioni, ma «quando, dopo momenti faticosi, gli effetti della terapia sbiadiscono e torni a svegliarti presto, e il giorno sta ancora nascendo, è pura gioia e gratitudine poterlo vedere». C’è, in questo libro, l’intelligenza sublime e il grande mestiere di chi riesce, con la scrittura, a far sembrare semplici le cose complesse, a dare un senso vero e autentico alla parola condivisione. Condividere l’esperienza di un cappuccino di soia o la vittoria di tornare ad aprire una bottiglia di acqua dopo l’ischemia, salire sulla carrozzina blu, raggiungere lo studio e dedicarsi al libro, due-tre ore, al mattino. «E mi rende felice, lavorarci in quelle poche ore benedette. Confessiamolo pure, quelle ore fuori dal tempo mi salvano». Leggere le oltre 400 pagine di questo libro è un’esperienza stranamente rassicurante, pacificante. Si sa come va a finire, ma è bello girare l’ultima pagina e pensare che Severino ce l’aveva detto: «Quando guarirò/ Non importa se io non ci sarò più, a vedermi guarire/ Io guarisco in ogni istante in cui mi curo».