I tre cerchi: cosa c’è dietro la protesta
La crisi in Iran è composta da tre cerchi. Innanzitutto c’è la protesta legittima di chi è stufo. Corruzione, nepotismo, caro vita, lavoro sono problemi cronici, ma che ora riemergono con forza.
E’inevitabile che accada, è la reazione di chi si aspetta qualcosa di meglio da un potere che domina il Paese da decenni. Una «piazza» che denuncia anche gli impegni degli ayatollah in favore dell’alleato siriano Assad e di altri movimenti sciiti, parte essenziale del duello con i sunniti e l’Arabia Saudita.
Le dimostrazioni legate alle questioni sociali incidono sul secondo cerchio, quello della politica interna. Sin dal giorno uno della Rivoluzione Islamica è stata una realtà magmatica, fatti di faide, correnti e fazioni che hanno usato ogni metodo — legittimo o meno — per darsi battaglia. Aperturisti contro conservatori, pragmatici contro duri e puri. Ognuno pronto a usare ciò che avviene nelle strade, a mobilitare gli attivisti per esprimere dissenso ma anche provocare. In questa fase chi rischia molto è il presidente Rouhani: non può dimostrarsi debole ma deve mantenere fede alle promesse di cambiamento. Rischiano, però, anche i giovani nel caso i cortei diventino lo schermo per violenze.
Infine gli attori esterni. Trump vuole stoppare l’influenza iraniana nella regione e si muove con Israele, preoccupato di avere ai confini le milizie sponsorizzate dagli eredi di Khomeini. La Casa Bianca scorge un’opportunità per accentuare la pressione. Gli europei desiderano fare grandi affari senza però perdere la faccia in caso di una repressione feroce. I sauditi sognano di logorare l’avversario storico appoggiando componenti estreme sunnite. Dunque i margini sono angusti. Perché ogni gesto di supporto sarà usato da Teheran come la prova conclamata di un’ingerenza straniera e fornirà il pretesto per un colpo di maglio pesante. I guardiani della rivoluzione non aspettano altro, le vittime di questi giorni sono un avviso.