I tesori dimenticati di Venezia
Le stanze dove secoli fa i marinai stranieri trascorrevano la quarantena ospitano i reperti raccolti in decenni dai volontari appassionati di storia
«Possibile che non esista un museo della storia di Venezia? E neppure uno della sua Laguna?». Non si stanca di ripetere la sua domandaprovocazione Gerolamo Fazzini, presidente dell’Archeoclub di Venezia e soprattutto studioso, inguaribile innamorato della sua città. Due giorni a seguire le sue visite guidate alle isole dei Lazzaretti sono un viaggio in uno dei luoghi tra i più noti al mondo, eppure a suo dire tutt’ora meno conosciuti, certamente carichi di sorprese. «Noi tutti siamo abituati a far partire la storia di Venezia con le grandi invasioni barbariche a metà del primo millennio dopo Cristo. A scuola ci raccontavano degli antichi borghi costruiti sulle palafitte-rifugio per fuggire dagli Unni, come se prima non ci fosse mai stato nulla e la Laguna fosse sempre rimasta la stessa. Ma non è affatto vero. Già negli anni d’oro della potenza romana qui sorgevano cittadine, centri commerciali, porti. E la Laguna, pur non protetta dalle dighe e i ripari cresciuti via via con il fiorire della potenza veneziana, grazie al suo ecosistema unico al mondo, le acque ricche di pesci e molluschi, offriva benessere e mobilità ai suoi abitanti: tanto che già duemila anni fa erano più numerosi di quelli odierni».
Le isole più remote
Ma è negli edifici restaurati del Lazzaretto Nuovo che lui e la piccola cerchia di concittadini coinvolti nell’impresa di «valorizzare Venezia, senza dimenticare i veneziani» sono ben contenti di mostrare quanti tesori «ancora troppo dimenticati e in pericolo di sparire» si nascondano nella regione. All’isolotto posto di fronte a Sant’Erasmo non fanno scalo i vaporetti, vi si accede solo con imbarcazioni private. Negli stanzoni costruiti nel 1468 (40 anni dopo l’erezione del Lazzaretto Vecchio) per volere dei Dogi con l’intento di far fronte all’epidemia di peste nera sono stipati i reperti raccolti negli ultimi quarant’anni. «Qui c’è uno dei capitoli più interessanti di storia della medicina. Quello di Venezia fu il primo governo al mondo che impose la quarantena per chiunque volesse entrare in città. Era una realtà cosmopolita, una città marinara aperta e tollerante. C’era anche una fortissima presenza musulmana. Ma si era capito che occorreva isolare i malati, mettere all’aria uomini e merci in arrivo dall’estero, prima di permetter loro di approdare ai nostri moli», ricorda Cristina Giussani, proprietaria della «Mare di Carta», la libreria nelle calli presso Piazzale Roma specializzata nella pubblicazione di cartine e libri di storia locale.
Le iscrizioni sui muri
Sui muri scrostati si leggono ancora i messaggi scritti dagli equipaggi costretti ad attendere il loro turno prima di poter accedere alla città. Le navi a remi, i galeoni con le vele quadre, le tipiche galeazze veneziane disegnate anche per le acque basse, le scene tratteggiate sono capitoli impagabili sull’epopea della navigazione e le tecniche cantieristiche nei secoli. Il disegno di un alto galeone a quattro alberi più bompresso risalta nettissimo. Poco lontano sono riportati i nomi dei componenti dell’equipaggio di una nave cipriota approdata nel 1569. Molti scritti sono in ottomano misti ai simboli dell’Impero, altri in arabo classico. Più riconoscibili e ripetuti sono gli stemmi dei vari mercanti che davano la loro merce affinché venisse fumigata con l’incendio di erbe aromatiche che si dice servissero per debellare il morbo della malattia. Le stesse erbe venivano anche stipate nel «becco» della maschera del dottore incaricato di curare i malati di peste. In una sala si trovano anche alcune tegole protette da un baldacchino di legno. «Pare siano gli ultimi resti di una delle abitazioni di Marco Polo. Potrebbero costituire uno dei pezzi forti del nostro possibile museo», dice Fazzini. Fuori, al riparo delle mura che vennero poi rafforzate per usi militari durante l’occupazione napoleonica e austriaca, sono adagiate antiche statue romane, sarcofaghi, colonne, tutti ancora in cerca di una sistemazione.
«Il nostro obiettivo sarebbe quello di utilizzare i dieci ettari del Lazzaretto Nuovo per concentrare i reperti e farne il deposito per l’area espositiva museale posta invece nei due ettari del Lazzaretto Vecchio. Il sito per quest’ultimo è ideale, nei pressi del Lido, non troppo lontano da San Marco, eppure appartato, vicino a San Lazzaro degli Armeni, da dove nel Medioevo i pellegrini si imbarcavano alla volta di Gerusalemme», racconta Guglielmo Zanelli, esperto della storia navale della Serenissima.
Il futuro dei Lazzaretti
Il suo museo ideale partirebbe da una sala tutta dedicata alla morfologia della Laguna, mostrando anche le aree più remote, le isole oggi scomparse. Seguirebbero l’epoca romana, poi un capitolo sulla sfida infinita tra uomo e mare, il ruolo dei fiumi, il continuo modificarsi del livello dell’acqua, lo scavo dei canali. La sala dedicata alla Serenissima dall’anno Mille avrebbe un posto centrale, ma poi anche le vicende della navigazione, oltre alle epopee militari, gli isolotti adibiti a postazioni d’artiglieria, i forti. «I fondi non sarebbero difficili da reperire. Ci sono ricchi contributi europei, dell’Unesco, potremmo trovare fondazioni private, la Biennale è interessata. Ma manca la capacità decisionale, la volontà politica. Il rischio è che a un certo punto i Lazzaretti vengano presi da gruppi privati a scopro di lucro», denuncia Giussani.
Gli «attivisti» del museo snocciolano i tanti esempi di privatizzazioni o di abbandono e addirittura di rapina metodica delle bellezze antiche, specie sulle isole minori. Come le migliaia di pozzi veneziani spariti negli ultimi decenni, assieme a statue, arazzi, grondaie in rame, affreschi, caminetti, e tanti altri tesori architettonici rubati dalle isole in stato di abbandono tipo Madonna del Monte, Poveglia, San Giorgio in Alga, Santo Spirito, Mille Campi. Non vorrebbero che i due Lazzaretti finissero come San Clemente dove è stato costruito un hotel, o la Sessola con il nuovo Marriott, o ancora Le Grazie che pare siano destinate a un albergo di Stefanel.
Il mito di Marco Polo Ci sono tegole protette da un baldacchino: «Pare siano resti di una casa di Marco Polo»