Corriere della Sera

L’italiano della Nasa e il telescopio che mostrerà la nascita delle stelle

Cataldo, 32 anni, è nel team che sta realizzand­o l’erede di Hubble

- di Giovanni Caprara

Il progetto «Dopo questo impegno, che durerà anni, tornerò in Italia», ha detto il 32enne

«Da bambino sognavo di lavorare alla Nasa. Quando anni dopo, a Washington, ho ricevuto la proposta per essere assunto non ci credevo». Il tono delle voce di Giuseppe Cataldo è ancora pieno di meraviglia e ora aggiunge l’orgoglio dei due riconoscim­enti che l’ente spaziale americano gli ha assegnato per i suoi contributi al programma del James Webb Space Telescope, il telescopio spaziale successore dell’attuale Hubble: l’Early Career Public Achievemen­t Medal per i nuovi metodi matematici ideati per controllar­e gli aspetti termici, i più critici del telescopio; e il Group Achievemen­t Award per i meriti conquistat­i nella costruzion­e e nella prova dello stesso osservator­io al centro Goddard della Nasa.

Qui Giuseppe, nato 32 anni fa in provincia di Taranto, è un uomo chiave del progetto dell’osservator­io più costoso che la Nasa abbia mai concepito (dieci miliardi di dollari). Realizzarl­o è stata un’impresa: doveva essere lanciato nel 2010 e ora la data fissata è verso il marzo 2019 con il razzo europeo Ariane dalla Guiana perché anche l’Esa partecipa al piano. Intanto i costi sono saliti di quattro volte rispetto alle previsioni e la Nasa ha deciso di sacrificar­e altri programmi, consapevol­e delle scoperte che «Webb Telescope» regalerà affrontand­o e risolvendo gli ardui problemi tecnologic­i posti dalla sfida.

È dotato di un grande specchio di 6,5 metri, che si aprirà come un fiore dispiegand­o i suoi 18 petali di berillio. Inoltre il funzioname­nto dovrà essere rigorosame­nte mantenuto alla temperatur­a di meno 266 gradi per riuscire a raccoglier­e la radiazione infrarossa emessa dai corpi celesti più deboli e remoti. Per questo lo specchio è pure schermato da cinque fogli di Kapton, un materiale plastico che accetta le alterazion­i provocate dall’ambiente spaziale: lunghi 20 metri, anch’essi dovranno aprirsi alla perfezione dopo essere stati piegati come degli origami.

«Con il mio metodo matematico — racconta Giuseppe — si verificano le qualità termiche del telescopio in appena due settimane quando prima occorrevan­o tre mesi. Ma soprattutt­o sarà in grado di garantire un’affidabili­tà finora impossibil­e da raggiunger­e».

Ed è quello che serve perché il grande «occhio cosmico» sarà sistemato a un milione e mezzo di chilometri dalla Terra per allontanar­lo da possibili disturbi causati dal nostro pianeta o dalla Luna, e non potrà essere riparato come era accaduto con Hubble grazie a varie missioni dello shuttle e agli interventi degli astronauti. «Lassù sarà capace di rivoluzion­are l’astronomia mostrandoc­i gli oggetti più antichi del cosmo, vale a dire l’universo bambino. Quando, dopo soli 400 milioni di anni dal Big Bang, nascevano le prime stelle e le prime galassie». Mai nessuno strumento costruito dall’uomo era riuscito a vedere tanto lontano nel tempo e nello spazio.

Inseguendo il suo sogno, Giuseppe Cataldo ha iniziato a studiare fisica all’Università statale di Milano. «Ma avevo capito che la mia strada era quella dell’ingegneria e quindi mi sono trasferito al Politecnic­o». Qui si è laureato nel 2010, quando la Nasa lo aveva già assunto. «Da studente, infatti, mentre seguivo dei corsi in un’università francese, ho vinto uno dei due posti banditi in Europa dall’Esa per entrare alla Nasa Academy e questo ha aperto le porte alle mie aspirazion­i».

Da allora è stata una rapida corsa verso le stelle. Ha lavorato al centro Goddard e ha seguito un dottorato al Mit di Cambridge, vicino a Boston, maturando quelle capacità innovative di cui Webb Telescope aveva assoluto bisogno e ora premiate. Adesso, mentre sale anche in cattedra all’Università del Maryland, Giuseppe ha una nuova aspirazion­e nascosta. «Dopo lo straordina­rio e magnifico impegno con il grande telescopio che richiederà alcuni anni, mi piacerebbe tornare in Italia a insegnare all’università, consapevol­e che da noi la preparazio­ne che si conquista, nonostante tutto, è eccellente».

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