Corriere della Sera

Due giganti dall’anima inquieta Il passato tormenta India e Russia

L’analisi di Federico Rampini (Mondadori) sulle linee di conflitto nel mondo contempora­neo

- di Aldo Cazzullo

È come leggere cento libri in uno. Come partire per un viaggio che mescola la geopolitic­a e l’autobiogra­fia, percorrere le linee di frattura del pianeta seguendo nello stesso tempo gli spostament­i di un giornalist­a dal curriculum invidiabil­e: corrispond­ente da Bruxelles (la città in cui è cresciuto), Parigi, San Francisco, Pechino, New York. Questo spiega perché l’ultimo saggio di Federico Rampini — Le linee rosse, Mondadori — si sia rivelato un longseller.

Si potrebbero raccontare tante storie: il pranzo nel dining del Michigan con operai ex democratic­i che hanno votato Donald Trump; la curiosa citazione della «trappola di Tucidide» — furono l’ascesa di Atene e la paura che ispirò a Sparta a rendere la guerra inevitabil­e — nei discorsi del presidente cinese Xi Jinping; l’approfondi­mento dell’ultimo

soft power, quello vaticano; il rischio dell’Italia di essere risucchiat­a dal Mediterran­eo; la globalizza­zione raccontata dal Prosecco. Chi scrive è rimasto particolar­mente affascinat­o dai due capitoli dedicati alle due superpoten­ze, quella territoria­le — la Russia, la cui superficie copre un sesto delle terre emerse: il Paese più grande del pianeta — e l’India, la superpoten­za umana, destinata a divenire in pochi anni il Paese più popolato. Più che Stati, continenti: scriveva Borges che l’India è più grande del mondo. Rampini ha viaggiato più volte a Mosca e a Delhi, fin da quando alla fine degli anni Settanta era «un giovane giornalist­a del Partito comunista italiano» e rischiò di schiantars­i all’aeroporto di Sheremetie­vo su un Tupolev in balìa di una tempesta di neve.

La Russia, scrive l’autore, «non è mai troppo grande». Occuparla si è rivelato impossibil­e: per Napoleone e per Hitler, e anche per gli svedesi nel 1707 e per gli eserciti dell’Intesa che nel 1918 tentarono di sovvertire l’esito della guerra civile russa. Ma invaderla si è rivelato relativame­nte facile, perché non ci sono barriere naturali a interrompe­re gli eserciti avanzanti dalle pianure dell’Europa centrale. Da qui l’esigenza strategica e anche psicologic­a di estendere il proprio territorio più lontano possibile da Mosca e San Pietroburg­o. L’avanzata è costata secoli di sangue. Grandi vittorie: Pietro il Grande insedia i russi nel Baltico, Alessandro I li porta da protagonis­ti al Congiocato gresso di Vienna, gli eserciti zaristi conquistan­o l’Asia centrale, l’Armata rossa estende la propria influenza sino a Berlino Est. Ma nulla risolve l’insicurezz­a di fondo dell’animo russo, aggravata dalla consapevol­ezza di essere un nano economico: il Pil è di poco superiore a quello della Spagna; altri Paesi hanno grandi quantità di materie prime e sono produttori di energia, ma non ne sono divenuti schiavi, come invece è accaduto alla Russia. Inoltre ex repubblich­e sovietiche e nazioni considerat­e alla stregua di colonie sono entrate nell’Unione Europea e nella Nato, che Putin pensa come un’alleanza ostile. Questo non giustifica, ma aiuta a capire l’intervento in Georgia, la repression­e in Cecenia, Abkhazia, Ossezia del Sud, la difesa a oltranza della Serbia, l’annessione della Crimea, il sostegno ai separatist­i ucraini, il ruolo in Medio Oriente. E anche l’appoggio ai populisti occidental­i, compreso Trump, che però da Putin ha dovuto prendere le distanze grazie anche al peso crescente dei generali nella sua amministra­zione: John Kelly, capo di gabinetto; James Mattis, segretario alla Difesa; Herbert R. McMaster, consiglier­e per la sicurezza nazionale.

C’è un leader, scrive Rampini, che ha «preceduto e anticipato Trump come campione di un nazionalpo­pulismo che rimane una forza politica in ascesa in tante parti del mondo»: è Narendra Modi, il premier indiano, leader del partito induista. Molto interessan­ti le pagine dedicate al mito indiano in Occidente, da Siddharta ai Beatles, dalla non violenza gandhiana allo yoga, contrappos­to all’India reale, compresa quella in lotta per l’indipenden­za: «Il nazionalis­mo indù nella sua versione contempora­nea nasce negli anni Venti del secolo scorso, nell’élite che si batteva contro gli inglesi, e tra le sue letture aveva Giuseppe Mazzini e, più tardi, Gabriele d’Annunzio e Benito Mussolini. Alla radice c’era la paura che l’identità indù — duttile e malleabile — finisse schiacciat­a tra culture più prepotenti come l’islam e il cristianes­imo. Perciò già nel 1925 un’ala del nazionalis­mo indù creava le sue milizie, sedotta dal fascismo italiano»; inaugurand­o una serie di violenze reciproche che dai giorni della Partizione del 1947 arrivano sino agli scontri del Gujarat, lo Stato di cui Modi fu governator­e (e alle incomprens­ioni sul Taj Mahal, tomba di un antico amore, cui sono dedicate pagine bellissime). Ecco spiegate le ansie e le insicurezz­e di due giganti come la Russia e l’India, ecco tracciate altre due linee rosse tra le tante che percorrono il tempo grandioso e terribile che ci è dato vivere.

Antiche paure Mosca ha respinto tutti gli invasori passati eppure non si sente mai davvero al sicuro

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Subodh Gupta (India, 1964), Line of Control (2008, installazi­one), Londra, Tate Britain

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