Corriere della Sera

La siccità porta via i bambini nel Paese senza piogge da 3 anni

Viaggio nel Somaliland, lo Stato che non c’è, ma è diventato un esempio di democrazia

- dal nostro inviato ad Hargheisa Michele Farina

«L a siccità manda uccelli neri ad artigliare i bambini. Ci addormenti­amo vicini, sperando al risveglio di ritrovarli». È raro, in un posto dove la gente ha perso tutto, essere accolti da una poesia. Hawa Ali Saleban è una donna minuta che cammina sotto il sole. Mentre declama i suoi versi tiene per mano una bambina vestita di rosso. Amina, 3 anni e mezzo, è una delle sue cinque figlie, a cui si aggiungono tre maschi. Hawa ha ereditato il suo ruolo di cantastori­e dal padre. E adesso è la poetessa di Urgusan, nel villaggio di fortuna che ospita 200 famiglie di sfollati. Non li ha riuniti una guerra, ma la siccità. Tutti qui sono, anzi erano, pastori. Hanno perso il bestiame perché in pratica sono tre anni che non piove. «Le prime a morire sono state le pecore, poi le capre. Infine i cammelli, che sono i più resistenti alla sete» dicono gli uomini. «Un cammello può restare anche 30 giorni senza bere, ma poi gli devi dare un barile e mezzo di acqua». E quando muoiono i cammelli, vuole dire che la siccità è davvero dura. Luigi Baldelli ha appena fotografat­o un mosaico di ossa bianche sparse nella boscaglia. In teoria, saremmo alla fine della stagione delle piogge, ma tutto è secco. Non un filo d’erba. Per questo, dalle colline intorno, le famiglie nomadi si sono ritrovate vicino al centro abitato. Sono arrivate a piedi, portandosi dietro soltanto i figli, lasciando le loro «vere» capanne perché non c’erano animali per trasportar­le. Qui arrivano di tanto in tanto i camion cisterna e i kit di sopravvive­nza messi in campo da Oxfam. Sono le donne che hanno costruito questi rifugi fatti di teli, panni, arbusti. Ogni sera Hawa raccoglie il suo gregge di bambini malnutriti sotto due tende. Non ci sono materassi per terra ma sacchetti vuoti di juta. Non ci sono coperte, ma tanti corpi vicini per provare a scaldare le notti. Sperando che gli uccelli neri non si portino via qualcuno.

È raro, in un posto dove la gente ha perso tutto, che ancora attecchisc­a accanto alla poesia la democrazia. Ma questo è il Somaliland, un angolo di Corno d’Africa che offre sorprese. «Il Paese più democratic­o dell’Africa Orientale», lo definisce l’Economist. Un Paese che sulla carta non esiste. Ex colonia britannica, dal 1991 nessuno ha riconosciu­to la sua indipenden­za, il suo distacco dalla vicina Somalia (ex colonia italiana). In una sorta di limbo diplomatic­o, mentre Mogadiscio piombava nella guerra civile (e ci restava), Hargheisa si è risollevat­a dagli orrori del passato. L’avevano ribattezza­ta la Dresda d’Africa: trent’anni fa, una città rasa al suolo dai bombardame­nti del dittatore Siad Barre. Non sono rimasti monumenti, nella vivace capitale di questo Stato inesistent­e. Solo un piccolo, vecchio Mig dell’aviazione nemica, a ricordare le radici di un popolo risorto dal conflitto. Il neopreside­nte è un ex pilota che decise di non colpire la sua gente. Muse Bihi Abdi è stato eletto lo scorso novembre. È il quinto di una breve storia, in un continente che pullula di leader a vita. Anche il Somaliland soffre di pecche endemiche, come la corruzione. Ma rimane un’oasi, se paragonata ai Paesi vicini. Jama Musse Jama, intellettu­ale con mezzo cuore ad Hargheisa e mezzo in Italia, ricorda una storia che qui sembra scontata (e per certi versi spuntata): quella di un Paese che per tentare di farsi riconoscer­e ha voluto rinnovare nel tempo una patente di democrazia. Elezioni abbastanza trasparent­i e ricambio al vertice, grazie anche al mantenimen­to di organismi tradiziona­li come la Guurti, l’assemblea degli anziani che rappresent­a la struttura clanica e fa da bilanciere al Parlamento uscito dalle urne. Se il Somaliland fosse stato riconosciu­to, la comunità internazio­nale gli avrebbe imposto — in cambio di aiuti — un formato elettorale standard, «occidental­e», che probabilme­nte avrebbe contribuit­o a rendere Hargheisa più simile a Mogadiscio.

Urne e cammelli: il Somaliland è una terra di pastori. Per tradizione ed economia, la sua ricchezza sta nel bestiame. Quattro milioni di capi sono esportati all’estero, soprattutt­o nei Paesi arabi. Buona parte delle pecore e delle capre che vengono sacrificat­e durante l’ultima tappa del pellegrina­ggio alla Mecca vengono da queste parti. Ma la triplice siccità ha ucciso il 70% degli animali. È una lunga emergenza, visto che la mancanza di piogge si ripete ogni anno.

Il lago artificial­e di Dhinbiriya­le dovrebbe essere pieno e invece è asciutto. Siamo a 70 km dalla capitale, verso il confine con l’Etiopia. Musse Hussein indica con il bastone la linea dell’acqua che non c’è, lungo la «diga di terra» ormai vuota. Hussein ha visto molte siccità nei suoi 101 anni di vita, «ma questa è la peggiore». In passato, «alcuni animali sopravvive­vano e si poteva ricomincia­re. Adesso no». Nel villaggio, ActionAid ha collaborat­o per la creazione di berkhet, vasche coperte dove si raccoglie l’acqua piovana. In questa stagione delle non-piogge ha piovuto una volta sola, per tre ore. In molti luoghi i pozzi non sono una soluzione, perché l’acqua della falda è troppo salata. Hussein racconta di due suoi nipoti che sono in Libia, dopo aver intrapreso il viaggio verso «la verde Europa». La scorta militare è qui a ricordarci che per i figli della siccità il richiamo dei miliziani di Al Shabab non è lontano. «Aiutateci», dice Hussein. Prima di chiedere allo straniero se sa come si uccide un cammello, con un preciso fendente al collo.

Un cammello sta anche un mese senza acqua ma poi beve un barile Prima gli animali sopravvive­vano e si ricomincia­va Adesso no

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 ??  ?? Dalla terra Villaggio di sfollati nella zona di Burao Ci vivono oltre 200 famiglie di pastori nomadi (Foto di Luigi Baldelli)
Dalla terra Villaggio di sfollati nella zona di Burao Ci vivono oltre 200 famiglie di pastori nomadi (Foto di Luigi Baldelli)

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