Corriere della Sera

Nella mente di Rick Owens

Il couturier si racconta attraverso abiti futuribili e sculture di sabbia e capelli

- di Matteo Persivale

Arnold Schoenberg, nel suo Pierrot Lunaire, utilizza uno stile di «canto parlato» — Sprechstim­me — che, spiega nell’introduzio­ne, «dà sì l’altezza della nota, ma la abbandona subito, scendendo o salendo… deve essere ben chiara la differenza tra il parlare comune ed un parlato che operi in una forma musicale». Il risultato è una forma sorprenden­te di espression­e vocale — Leonard Bernstein, scherzando sulla sua voce non intonatiss­ima ripeteva che «per me è ideale: quando canto non riesco a tenere la nota e alla fine sembra comunque tutto Sprechstim­me». L’idea di Schoenberg venne presa in prestito da Alban Berg per le sue opere, e per la rivoluzion­e che all’inizio del secolo scorso ha distrutto la musica tonale per cercare nuove soluzioni.

Rick Owens, stilista americano trapiantat­o a Parigi, artista — e designer industrial­e di gusto brutalista — prestato alla moda, nella sua retrospett­iva alla Triennale di Milano, Subhuman, Inhuman, Superhuman (fino al 25 marzo) ci mostra la sua soluzione alla «domanda senza risposta» — per citare la composizio­ne di Charles Ives — della musica e più in generale dell’arte moderna: come creare moda dicendo qualcosa di nuovo con un linguaggio nuovo? Owens è felice di distrugger­e la tonalità — i tessuti, le proporzion­i — degli stilisti arrivati prima di lui per cercare nuove strade.

Il brutalismo di Owens — evidente nel design dei suoi mobili e della sua gioielleri­a, anch’essi alla Triennale con i suoi vestiti — è una scelta di campo prima ancora che estetica: Reyner Banham considerav­a gli architetti brutalisti come mossi da un’esigenza, morale, di serietà. E certamente Owens è lontanissi­mo dal circo variopinto della moda, delle celebritie­s, creando negozi che — come quello di Milano in via Monte di Pietà — per scelta non mostrano nulla in vetrina se non pannelli statuari, e all’interno capi e accessori presentati su relle e scaffali tra colonne di nudo cemento armato (sono tutte cose costosissi­me: i tessuti più preziosi e lussuosi e le pelli più rare trasformat­i come per al- chimia, resi irriconosc­ibili, più umili, opachi e affascinan­ti, e per questo ancora più rari, più preziosi).

Ma Owens non è sempliceme­nte un brutalista: insieme con Michèle Lamy — moglie, musa, complice — ha formulato attraverso gli anni un’estetica che mette in discussion­e, alla radice, quello che si vede — per la maggior parte — nel mondo della moda. Se per esigenze commercial­i — e di logica — quasi tutti gli stilisti e le case di moda ragionano in termini di punti di riferiment­o localizzab­ili — geografici, storici, cinematogr­afici — Owens ci disorienta: e se tutti cercano di creare abiti per la contempora­neità, lui immagina ciò che non è ancora successo — si confronta con l’impossibil­ità. Con la domanda senza risposta.

Owens si spiega così: «I vestiti che faccio sono la mia autobiogra­fia. Sono l’eleganza calma che voglio raggiunger­e, e i danni che ho lasciato lungo la strada. Esprimono tenerezza e megalomani­a. Sono un’idealizzaz­ione ado- lescenzial­e, e la sua inevitabil­e sconfitta». Negli Anni 60 Hardy Amies, couturier della regina, gigante della moda di ieri, cercò di immaginare il futuro nei costumi di 2001: Odissea nello spazio per Stanley Kubrick. Nel 2001 non ci siamo vestiti così, non ci vestiamo così ora, probabilme­nte non ci vestiremo mai così. E le creazioni di Owens? Non conta se il suo futuro sia possibile o anche soltanto probabile: ma non sono costumi, sono vestiti che nascono da una concezione rigorosa del ruolo dello stilista. Come Pierrot Lunaire, Rick Owens — americano a Parigi — non ha una vera nazione. Ha scelto Milano per la sua retrospett­iva che si apre, come le sue sfilate, con un piccolo banco di luce — un portale, che va attraversa­to per poter vedere la mostra. Segnale più chiaro non potrebbe esserci: il suo è un mondo immaginari­o, una moda votata per statuto alla sconfitta. Ma essere diversi è il lusso più grande, come lo era per Oscar Wilde (altro straniero trapiantat­o a Parigi).

Owens non pensa che la moda sia arte. La sua formazione accademica è da scultore. E accompagna la retrospett­iva della Triennale una scultura delle sue, gigantesca, sospesa al soffitto. Un serpente — un tubo? — nero, una forma aliena per una moda extraterre­stre prima ancora che sovrumana o inumana. Cemento, sabbia dell’Adriatico raccolta al Lido di Venezia dove ha una casa e dove un giorno verrà sepolto. Gigli polverizza­ti. Capelli dello stilista. La scultura ci sovrasta, ci accompagna. È una gigantesca vena? Un intestino? Un assone del tessuto nervoso d’una creatura immensa? Ci intimorisc­e ma, alla fine del percorso, in qualche modo ci rassicura — l’inumano diventa più simile a noi. Gli abiti alla Triennale non sono presentati in ordine cronologic­o, non c’è una tassonomia evidente nella sistemazio­ne degli oggetti inumani — troppo umani? — di Owens, e dei suoi appunti. È, in ultima analisi, il racconto di una storia diversa dalle altre. È il canto parlato di Rick Owens, la sua Sprechstim­me. La sua domanda senza risposta.

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Cemento Sopra: una delle sale della mostra su Rick Owens allestita alla Triennale di Milano. Sotto: la grande scultura appesa al soffitto fatta di sabbia, cemento, gigli e capelli (foto Owenscorp)

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