Nella mente di Rick Owens
Il couturier si racconta attraverso abiti futuribili e sculture di sabbia e capelli
Arnold Schoenberg, nel suo Pierrot Lunaire, utilizza uno stile di «canto parlato» — Sprechstimme — che, spiega nell’introduzione, «dà sì l’altezza della nota, ma la abbandona subito, scendendo o salendo… deve essere ben chiara la differenza tra il parlare comune ed un parlato che operi in una forma musicale». Il risultato è una forma sorprendente di espressione vocale — Leonard Bernstein, scherzando sulla sua voce non intonatissima ripeteva che «per me è ideale: quando canto non riesco a tenere la nota e alla fine sembra comunque tutto Sprechstimme». L’idea di Schoenberg venne presa in prestito da Alban Berg per le sue opere, e per la rivoluzione che all’inizio del secolo scorso ha distrutto la musica tonale per cercare nuove soluzioni.
Rick Owens, stilista americano trapiantato a Parigi, artista — e designer industriale di gusto brutalista — prestato alla moda, nella sua retrospettiva alla Triennale di Milano, Subhuman, Inhuman, Superhuman (fino al 25 marzo) ci mostra la sua soluzione alla «domanda senza risposta» — per citare la composizione di Charles Ives — della musica e più in generale dell’arte moderna: come creare moda dicendo qualcosa di nuovo con un linguaggio nuovo? Owens è felice di distruggere la tonalità — i tessuti, le proporzioni — degli stilisti arrivati prima di lui per cercare nuove strade.
Il brutalismo di Owens — evidente nel design dei suoi mobili e della sua gioielleria, anch’essi alla Triennale con i suoi vestiti — è una scelta di campo prima ancora che estetica: Reyner Banham considerava gli architetti brutalisti come mossi da un’esigenza, morale, di serietà. E certamente Owens è lontanissimo dal circo variopinto della moda, delle celebrities, creando negozi che — come quello di Milano in via Monte di Pietà — per scelta non mostrano nulla in vetrina se non pannelli statuari, e all’interno capi e accessori presentati su relle e scaffali tra colonne di nudo cemento armato (sono tutte cose costosissime: i tessuti più preziosi e lussuosi e le pelli più rare trasformati come per al- chimia, resi irriconoscibili, più umili, opachi e affascinanti, e per questo ancora più rari, più preziosi).
Ma Owens non è semplicemente un brutalista: insieme con Michèle Lamy — moglie, musa, complice — ha formulato attraverso gli anni un’estetica che mette in discussione, alla radice, quello che si vede — per la maggior parte — nel mondo della moda. Se per esigenze commerciali — e di logica — quasi tutti gli stilisti e le case di moda ragionano in termini di punti di riferimento localizzabili — geografici, storici, cinematografici — Owens ci disorienta: e se tutti cercano di creare abiti per la contemporaneità, lui immagina ciò che non è ancora successo — si confronta con l’impossibilità. Con la domanda senza risposta.
Owens si spiega così: «I vestiti che faccio sono la mia autobiografia. Sono l’eleganza calma che voglio raggiungere, e i danni che ho lasciato lungo la strada. Esprimono tenerezza e megalomania. Sono un’idealizzazione ado- lescenziale, e la sua inevitabile sconfitta». Negli Anni 60 Hardy Amies, couturier della regina, gigante della moda di ieri, cercò di immaginare il futuro nei costumi di 2001: Odissea nello spazio per Stanley Kubrick. Nel 2001 non ci siamo vestiti così, non ci vestiamo così ora, probabilmente non ci vestiremo mai così. E le creazioni di Owens? Non conta se il suo futuro sia possibile o anche soltanto probabile: ma non sono costumi, sono vestiti che nascono da una concezione rigorosa del ruolo dello stilista. Come Pierrot Lunaire, Rick Owens — americano a Parigi — non ha una vera nazione. Ha scelto Milano per la sua retrospettiva che si apre, come le sue sfilate, con un piccolo banco di luce — un portale, che va attraversato per poter vedere la mostra. Segnale più chiaro non potrebbe esserci: il suo è un mondo immaginario, una moda votata per statuto alla sconfitta. Ma essere diversi è il lusso più grande, come lo era per Oscar Wilde (altro straniero trapiantato a Parigi).
Owens non pensa che la moda sia arte. La sua formazione accademica è da scultore. E accompagna la retrospettiva della Triennale una scultura delle sue, gigantesca, sospesa al soffitto. Un serpente — un tubo? — nero, una forma aliena per una moda extraterrestre prima ancora che sovrumana o inumana. Cemento, sabbia dell’Adriatico raccolta al Lido di Venezia dove ha una casa e dove un giorno verrà sepolto. Gigli polverizzati. Capelli dello stilista. La scultura ci sovrasta, ci accompagna. È una gigantesca vena? Un intestino? Un assone del tessuto nervoso d’una creatura immensa? Ci intimorisce ma, alla fine del percorso, in qualche modo ci rassicura — l’inumano diventa più simile a noi. Gli abiti alla Triennale non sono presentati in ordine cronologico, non c’è una tassonomia evidente nella sistemazione degli oggetti inumani — troppo umani? — di Owens, e dei suoi appunti. È, in ultima analisi, il racconto di una storia diversa dalle altre. È il canto parlato di Rick Owens, la sua Sprechstimme. La sua domanda senza risposta.