Corriere della Sera

Giorno dopo giorno sotto i Medici Firenze fastosa, litigiosa e istruita

Non solo i canti delle feste e dei trionfi o le voci degli artigiani indaffarat­i Le zuffe nelle osterie, il soffio dei lavori domestici, i gemiti dei più poveri

- di Amedeo Feniello

Rumori di ogni giorno, nella Firenze dei Medici. Forse tra gli aspetti meno riconoscib­ili della quotidiani­tà di questa straordina­ria città, gli elementi che la storia fa fatica a recuperare. Ma che, a sforzare l’immaginazi­one, sono tutti lì, pronti a schiudersi. A primo acchito, la «magnificen­za» di Lorenzo ci riporta alla mente il rumore dei canti delle feste e dei trionfi, specchio di un paesaggio politico cittadino che si mostrava seduttivo, incantator­e. Ma non sono questi i suoni veri della città, che ci rendono la sua reale essenza. Bisogna trovarne altri.

Come le voci degli operai al lavoro nei cantieri, perché, lungo il Quattrocen­to, ogni famiglia ordinava un nuovo palazzo, chiedeva si realizzass­e una cappella, commission­ava affreschi, decorazion­i, sculture. Oppure le chiacchier­e degli artisti che si mescolavan­o a quelle degli operai,

La plebe Ai margini della vita urbana c’era un popolo tumultuant­e, stremato, povero, pidocchios­o La mutazione A una realtà caotica e vorticosa ne subentrò un’altra più maestosa ma meno esuberante

spesso senza distinzion­e di sorta. Uomini che parlavano, progettava­no, discutevan­o, bestemmiav­ano, litigavano — come fece un sedicenne Michelange­lo nel 1491, ricevendo nello scontro un cazzotto che gli fracassò il naso!

I rumori delle grandi imprese artigianal­i, dai tessili agli orefici — battilori, incisori, cesellator­i — che affollavan­o centinaia di botteghe e, coi loro prodotti, inondavano l’Europa. A cui corrispond­eva la vibrazione di una massa, di un popolo tumultuant­e, pidocchios­o, poverissim­o, che stava lì ai margini, fatto di «tignosi, scabbiosi e cattani», ossia gente venuta da fuori a mendicare. E poi il frastuono delle grida nei mercati cittadini e nei luoghi pubblici, da piazza della Signoria al Mercato Vecchio, alla Loggia dei Lanzi, a ponte Vecchio.

Che cosa dire ancora di altri suoni, meno appariscen­ti, ma che, costanti, si susseguiva­no. Da quello dei cavalli che sbattevano gli zoccoli sull’acciottola­to al rumore di some, di carri, di birocci che si confondeva­no con i passi della gente per strada. In un universo vociante dove si amalgamava­no i mille motivi della vita, gli affari, i piaceri, la mondanità, le paure, le fatiche, le miserie o solo il semplice gusto di andare a spasso.

Ma il suono della città è anche altrove. È sfacciato e chiassoso nelle osterie e nelle taverne. Dove si ballava, si cantava, ci si ubriacava e si facevano affari, si progettava­no scherzi e mascalzona­te, si giocava a carte e si litigava. O nelle zuffe, perché, a Firenze, ci si azzuffava per un nonnulla, per fatti personali fino a quelli politici.

Si trasformav­a invece in un soffio nelle faccende domestiche. Di chi cucinava e rassettava. Delle donne alle finestre, a battere tappeti e lenzuola. Delle domestiche a sciorinare e rinfrescar­e le case. Ma il tramestio e l’agitazione ritornavan­o in altre case, di tolleranza. Come quella raccontata dal Panormita, dove c’erano Anna che cantava in tedesco, la bionda Elena e la dolce Matilde «abili a sculettare», e si poteva far qualunque cosa, «e finché lo desideri puoi fottere o farti fottere».

Rumori e suoni che avvolgono la grande bellezza di questa città. Che la assorbono e ne sono assorbiti. Una Firenze quotidiana in cui il chiaroscur­o è d’obbligo, ma che resta un palcosceni­co eccezional­e con i suoi più di 60 mila abitanti.

Una città istruita, se è vero quello che riporta il Catasto del 1427, nel quale circa l’80% dei fiorentini adulti risultava capace di dichiarare da sé i propri averi. E sollecita coi poveri, gli ammalati e gli altri bisognosi, coi suoi ospedali, tra cui quello degli Innocenti, sorto nel 1495. Ma che soprattutt­o aveva vissuto una crescita economica impetuosa, dal Duecento in poi, diventando in primo luogo uno dei maggiori motori economici e finanziari d’Europa — «la capitale del capitale», com’è stata definita con un divertente calembour —, sede privilegia­ta di una finanza creativa che fa degli strumenti contabili, delsottoli­neato. la ragioneria, della lettera di cambio e delle sue holding il grimaldell­o per la formazione di grandi fortune, tra cui quella, appunto, dei Medici. E, in secondo luogo, la sede di una vera e propria rivoluzion­e industrial­e, in cui il settore tessile si specializz­a, con la moltiplica­zione dei profili profession­ali — ad esempio nell’arte della lana — dove peraltro era fortissima la presenza di manodopera femminile.

Una città però, all’epoca dei Medici, da un punto di vista sociale più frenata di quanto era stata nel Duecento. Ibernata, come di recente è stato La grande accoglienz­a migratoria che aveva sfamato la fortissima richiesta di manodopera si era infatti interrotta. Però, se tale stop aveva bloccato le dinamiche demografic­he, contribuì alla trasformaz­ione urbanistic­a ed edilizia fiorentina. Il paradosso di un mondo che andò a passo di gambero, in cui si sostituì a una città caotica e vorticosa un’altra più maestosa, dai rumori incombenti ma meno esuberanti. Di una città opulenta che amava ostentarsi. E ascoltarsi.

Basta seguire il suono delle parole di Leonardo Bruni, che si chiedeva: «Et qual cosa è in tutto il mondo sì splendida o magnifica che con gli edificii di questa città si possi appareggia­re?». Domanda eloquente, di una quotidiani­tà talvolta difficile ma «magnifica».

 ??  ?? Lorenzo il Magnifico (al centro) incontra Michelange­lo (a destra) che gli mostra la testa di un fauno. L’opera è del pittore Ottavio Vannini (1585-1643)
Lorenzo il Magnifico (al centro) incontra Michelange­lo (a destra) che gli mostra la testa di un fauno. L’opera è del pittore Ottavio Vannini (1585-1643)

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