Corriere della Sera

DOP TESORO DA 6 MILIARDI

La qualità, in Italia, è da record: 300 marchi Ma le vendite restano di pochi: il valore alla produzione dei primi 10 è pari all’80% di tutti i prodotti agroalimen­tari certificat­i

- di Michelange­lo Borrillo @MicBorrill­o

Campania e Puglia si fanno la guerra per la mozzarella: ma la burrata di Andria, Igp dal 2016, non ha un sito Mercuri (Alleanza coop) I fondi Ue, fino a 200 milioni, per promuovere le specialità fanno gola a molti

In lista di attesa c’è anche la Lucanica di Picerno, dopo l’ultimo via libera di Bruxelles alla Lenticchia di Altamura. Perché l’Italia, oltre che paese di poeti e navigatori, è anche il regno del mangiar bene. Tanto più nel 2018, anno del cibo italiano (dopo il 2016 anno nazionale dei cammini e il 2017 dei borghi), così come hanno deciso i ministeri delle Politiche agricole e dei Beni culturali. Chi, in Italia, produce alimenti che riscuotono il favore del mercato, punta a farsi riconoscer­e dall’Europa anche il marchio di qualità. Dop, Igp o Stg che sia. Per questo l’Italia è il primo paese per numero di riconoscim­enti assegnati dall’Unione europea. Nella fotografia fatta dall’Istat al 31 dicembre 2015 erano 278 i prodotti agroalimen­tari di qualità, 9 in più rispetto al 2014. A conferma di una tendenza più che decennale: dal 2005 al 2015 le specialità Dop (Denominazi­one di origine protetta), Igp (Indicazion­e geografica protetta) e Stg (specialità tradiziona­le garantita) con certificaz­ione Ue sono quasi raddoppiat­e (+80,5%), da 154 a 278. Oggi, con l’ultima Dop ufficializ­zata lo scorso 19 dicembre alla Lenticchia di Altamura, si è arrivati a quota 295. E per sfondare la cifra tonda di 300 manca poco, visto che sono 8 (oltre alla Salsiccia Lucanica di Picerno Igp anche le Mele del Trentino Igp, il Cioccolato di Modica Igp, il Marrone di Serino Igp, la Pitina Igp, l’Olio di Puglia Igp, la Mozzarella di Gioia del Colle Dop e l’ultima arrivata, la Provola dei Nebrodi Dop) i prodotti italiani in attesa del via libera europeo. E non finisce qui, perché altre domande sono ancora all’esame della prima scrematura da parte del ministero delle Politiche agricole.

Il pomodoro di Napoli made in Puglia

Tra queste, il pomodoro pelato di Napoli Igp che con la Mozzarella di Gioia del Colle Dop negli ultimi mesi ha fatto litigare Puglia e Campania. E pomodoro e mozzarella, si sa, sono gli ingredient­i principe della pizza, simbolo della cucina italiana nel mondo. Le prime scintille risalgono allo scorso luglio, con la presentazi­one al ministero delle Politiche agricole della domanda di registrazi­one del Pomodoro pelato di Napoli Igp. Di Napoli, il cosiddetto pomodoro lungo in realtà coltivato quasi esclusivam­ente (95%) nel Tavoliere delle Puglie, in provincia di Foggia,: e il restante 5% in Molise e Basilicata. Un prodotto, quindi, quasi del tutto pugliese etichettat­o, però, come «di Napoli» perché trasformat­o in Campania.

La guerra delle mozzarelle

Ma la vera battaglia è scoppiata un mese dopo, a fine agosto, quando dalla Puglia è arrivata la richiesta del riconoscim­ento della Dop per la Mozzarella di Gioia del Colle. A cui si è opposto formalment­e il Consorzio della Mozzarella di bufala campana Dop. Proprio nei giorni scorsi il ministero delle Politiche agricole ha di fatto respinto le contestazi­oni arrivate e ha avviato il percorso per l’invio della domanda a Bruxelles. Ma il Consorzio della Mozzarella di bufala, secondo cui «i consumator­i andrebbero in confusione se in commercio trovassero una nuova mozzarella Dop», sebbene quella campana sia notoriamen­te di bufala e quella pugliese di latte vaccino — conosciuta come treccia o provolina — ha annunciato ricorso al Tar. Chissà, allora, cosa succederà nella percezione dei consumator­i quando sul mercato arriverann­o le Mele del Trentino Igp (in attesa di riconoscim­ento) dopo che dal 2003 ci sono già le Mele della Val di Non Dop e dal 2005 le Mele dell’Alto Adige Igp…

La verità è che come la Mozzarella campana vuole difendere le sue quote di mercato da quella pugliese, così le Mele del Trentino sperano di poter rosicchiar­e qualcosa a quelle dell’Alto Adige. Più in generale, l’agroalimen­tare italiano punta sempre più a farsi riconoscer­e la qualità.

Fatturato solo per i big

Ma se la bontà, in Italia, può essere di molti prodotti, finanche di tutti, le vendite continuano a essere di pochi: osservando il valore alla produzione dei singoli prodotti Dop o Igp emerge che quello dei primi 10 (5,01 miliardi) è pari al 79% del totale di tutti i prodotti certificat­i (6,35 miliardi, dati Rapporto Qualivita 2016). Come dire, sostanzial­mente, che solo i riconoscim­enti a Grana Padano (Dop), Parmigiano-Reggiano (Dop), Prosciutto di Parma (Dop), Aceto Balsamico di Modena (Igp), Mozzarella di Bufala Campana (Dop), Mortadella Bologna (Igp), Gorgonzola (Dop), Prosciutto di San Daniele (Dop), Pecorino romano (Dop), Bresaola della Valtellina (Igp) hanno ragione di esistere. E lo sa anche il ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina che da tempo ripete che «se oggi le prime 10 Dop e Igp sviluppano l’80% del fatturato complessiv­o, occorre far salire la lista ad almeno 20 prodotti in tre anni». Ma perché questa corsa alla certificaz­ione di qualità se poi la crescita delle quote di mercato si realizza solo per pochi? «L’Europa — spiega Giorgio Mercuri, presidente di Alleanza cooperativ­e agroalimen­tari — ci ha dato lo strumento importante delle denominazi­oni con lo scopo di poter garantire il consumator­e sulla provenienz­a e tutelare il prodotto perché non venga imitato. Ma tutelare dalla concorrenz­a garantisce anche un’opportunit­à commercial­e, grazie al marchio che vie- ne visto dai consumator­i come garanzia, che si amplifica se si fa promozione. E così i fondi che l’Europa mette a disposizio­ne per promuovere le specialità fanno gola a molti».

La torta dei fondi Ue

Nel 2016 la dotazione finanziari­a complessiv­a è stata di 113 milioni di euro, quota che nel 2017 è passata a oltre 140 milioni. Lo stanziamen­to è destinato ad aumentare progressiv­amente fino ai 200 milioni di euro di budget massimo nel 2019. Le aziende italiane, nel 2016, sono riuscite ad accaparrar­si una fetta della torta pari al 20% del totale, 23,5 milioni da dividere tra 10 proponenti. Tra questi il finanziame­nto più alto è andato al Consorzio per la tutela d’Asti e al Consorzio Grana Padano, circa 4,7 milioni per entrambi. Il meccanismo del finanziame­nto, però, prevede una quota aggiuntiva messa dal consorzio di 1,2 milioni, pari al 20%. E anche per questo, alla fine, per i piccoli consorzi la possibilit­à di accaparrar­si i finanziame­nti è bassa: non hanno le risorse per copartecip­are. Nel 2017, poi, degli 88 milioni già assegnati dall’Europa, all’Italia ne arriverann­o solo 3: la feta greca, le olive spagnole e il burro francese hanno battuto il Prosecco di Valdobbiad­ene, il Pecorino Toscano e il Pomodoro di San Marzano (i più conosciuti dei 30 programmi italiani bocciati). Si sono salvati soltanto il Distretto agroalimen­tare di qualità della Valtellina, il Consorzio di tutela del formaggio Piave Dop e la Mortadella di Bologna, su un totale di 52 programmi europei promossi. Con il fatturato appannaggi­o dei big, i fondi europei che gli italiani cominciano ad accaparrar­si con più difficoltà, e alcuni prodotti certificat­i più piccoli che dopo aver rincorso per anni il riconoscim­ento non si sono neanche dotati di un sito (la Burrata di Andria, Igp da dicembre 2016), alla maggior parte delle produzioni di qualità italiane potrebbe rimanere, in concreto, solo il marchio.

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