Solo adesso quel bambino s’è liberato del dolore
Ho avuto il piacere di cenare con Aharon Appelfeld un paio di volte. Tutto aveva fuorché il physique du rôle del narratore israeliano. Tondetto, piccolino, occhi sorridenti, pelle delicata, voce sottile, dolce, quasi infantile, non toglieva mai un curioso berretto. L’impressione era di trovarsi al cospetto di uno di quegli operosi emigré ashkenaziti che, dopo aver tirato la carretta per più di mezzo secolo, vanno a godersi la pensione in un rifinito condominio di Miami. Eppure nei suoi libri non c’è traccia di tale dolcezza borghese, della vita qualunque che tutti meritiamo; essi testimoniano un’esperienza infantile così mostruosa che ancora oggi la mia fantasia stenta a figurarsela. Un mix di circostanze logistiche, etniche e anagrafiche hanno fatto di lui la vittima perfetta — e quindi il testimone privilegiato — dell’orrore nazista, come Primo Levi o Jean Améry. Ma a differenza di quei suoi compagni di sventura, Appelfeld fu investito dalla tempesta nel fiore dell’infanzia. Il che spiega perché non ne sia mai uscito del tutto. Mi raccontò le difficoltà patite per trovare un editore disposto a pubblicare le sue prime opere. Allora in Israele nessuno voleva leggere certe storie. Erano altre le priorità per questi ebrei nuovi di zecca, gagliardi e volitivi. Me lo disse senza risentimento, come se la cosa dopotutto avesse un senso. Mi fece notare come ben presto i soli testimoni oculari della Shoah sarebbero stati i pochi bambini sopravvissuti. Mi invitò a considerare come certe esperienze estreme — trascese dal diaframma della memoria infantile — acquistino la lugubre vividezza dell’allucinazione. La sola cosa che si aspettava dai suoi lettori è che non dimenticassero mai che l’autore di quei libri così sconcertanti, sebbene ormai adulto, era ancora un bimbo. Nessun filtro, nessun fatalismo adulto lo aveva protetto da ciò che gli stava capitando. La sua memoria, mi spiegò, non aveva avuto né la forza né l’astuzia di razionalizzare: era emotiva, sommersa, ad altezza ginocchia, insomma un incubo di cui forse solo ora si è liberato.