GELO, FATICA, BELLEZZA LA MONTAGNA E NOI
La fotografia del Monviso lontano 240 chilometri, scattata da Milano, che ha pubblicato qualche giorno fa il Corriere, era emozionante. Anche atterrare a Torino in una giornata limpida, possibilmente al tramonto, e vedere le Alpi coperte di neve provoca una grande emozione. L’Etna incappucciato di bianco è da perdere la ragione. Il Gran Sasso, visto dall’Aquila, ma pure dall’altra parte, ti mozza il respiro. Persino il Terminillo, la montagna banale dei romani, quando il cielo è pulito dalla tramontana, ha un suo fascino assorto. L’Italia ha le montagne nel suo scheletro; e nel sangue. La montagna — come il Monviso fotografato da Milano — esprime la distanza irraggiungibile; esprime la purezza; esprime la solitudine. E un senso segreto di nostalgia che è difficile spiegare a parole.
Goffredo Parise, che sul Corriere ha scritto alcuni racconti stupendi sulla montagna, poi raccolti nei due Sillabari, aveva una tale nostalgia della montagna, e in particolar modo di Cortina, che quando per motivi di salute non poté più andarci, nella sua casetta sul greto del Piave — perlomeno così mi disse — si fece istallare non so quale marchingegno che gli restituiva l’aria di Cortina. Parise amava lo scricchiolio delle neve fresca che si sente sotto gli sci nel canalone della Tofana; amava il colore delle rocce e il silenzio del bosco; amava i volti delle belle donne bruciati dal sole del Faloria; amava andare in una vecchia casa ampezzana, dalla parte di Zuel, da un donna burbera, «fidanzata» un tempo di Comisso, a dividere la polenta attorno al tavolo quadrato della cucina, con qualche scalatore taciturno (come lui stesso) o qualche professore universitario non tanto conosciuto. Ma aveva scritto anche un paio di racconti, altrettanto belli, sulle vacanze estive, modeste, che si facevano sulle Prealpi: pensioni da quattro soldi sul bordo della strada, con la cena alle sette. Quella, era la nostalgia di una «montagna mancata»: opprimente come un oscuro senso di colpa.
La montagna, un tempo — non fosse altro che per l’assenza delle autostrade, le strade impervie e strette, la mancanza d’inverno degli spazzaneve, la tortura indescrivibile delle catene — era l’arrivo in un altro mondo (io ricordo il lungo viaggio notturno in treno, la prima ventata di abeti e di freddo, l’odore di legno della casa, i piumini, il ritiro del baule). E una conquista, in un certo qual modo. Una vera e propria fatica: con quei pantaloni ruvidi che ti pizzicavano le gambe, i lacci degli scarponi, la neve che ti entrava nel collo. Credo, a dispetto di ogni logica e di ogni progresso, che non sarebbe sbagliato se rimanesse tale.
Se non si fatica, la montagna è inutile. Se non risali cogli sci «a scaletta» una cinquantina di metri avendo preso una curva sbagliata (e magari litigato con tua moglie che ti aspetta nel «punto giusto»), non puoi apprezzare l’immensa gioia della discesa (e della rappacificazione). Se non stai un po’ a stecchetto, non puoi apprezzare la vera fame, e quei giganteschi piatti che oggi ti danno nei rifugi. Se, d’altro canto, riesci a resistere al profumo delle cotolette e degli stichi, ti tieni la fame e soffri, poi scii molto meglio. Se d’estate non ti ammazzi su una salita sotto il sole, poi non puoi capire, quando sei in quota, cosa significano quei colpi d’aria radenti che sono come delle frustate dell’aria e ti aprono il petto. Se non muori di sete, non puoi capire cosa vuol dire chinarsi e raccogliere fra le mani l’acqua di una sorgente. Insomma, se non fatichi, lascia perdere.
E se, per caso un anno nevica tanto, così tanto che basta una automobile di traverso a bloccare un paese e una valle, non lamentarti dopo averla agognata la neve, decretato la fine dei ghiacciai, il riscaldamento universale. Fai una piccola rinuncia e non usare l’automobile. Stattene a casa. Vai a passeggiare nel bosco: che è la cosa più bella da fare quando c’è tanta neve. E se devi partire a ogni costo, fai il sacrificio di aspettare qualche ora che le strade siano praticabili, oppure scegli un itinerario alternativo. O — a mali estremi, estremi rimedi — «occupa», sì occupa manu militari la pensione o l’albergo. Con tutti i famigliari, e il cane.
La conquista Le strade strette, la tortura delle catene: raggiungerla è una vera conquista Nei rifugi Se prima non stai un po’ a stecchetto, se non hai vera fame, non puoi apprezzare i giganteschi piatti che ti danno nei rifugi