Corriere della Sera

IL CLAMORE E LE COSE GIÀ MUTATE

- di Sergio Romano

Nel libro di Michael Wolff sulla Casa Bianca di Donald Trump non vi è quasi niente che non fosse già stato scritto o detto negli scorsi mesi. Conoscevam­o la volubilità di Trump, la sua incapacità di concentrar­si sulle questioni di maggiore importanza, la sua incontenib­ile vanità, i suoi continui voltafacci­a, il suo gusto per la provocazio­ne e per la diplomazia dei tweet. È veramente nuovo soltanto il fatto che oltre a questo ben conosciuto ritratto di Trump, vi sia nel libro una frase di Steve Bannon, consiglier­e strategico del presidente nei suoi primi mesi alla Casa Bianca e portavoce di una destra sguaiata, nazionalis­ta e razzista. A proposito di un incontro di membri della famiglia Trump con una avvocata russa alla Trump Tower, Bannon, suscitando la collera del presidente, ha detto che quell’incontro fu sedizioso (treasonous). Ma Bannon è stato licenziato da Trump cinque mesi fa e la stampa liberale americana non lo aveva mai considerat­o, prima d’ora, degno di essere ascoltato e creduto.

Non è tutto. Come ha osservato il New York Times (una delle voci più critiche della presidenza Trump), il caso Wolff appartiene alle tradizioni di una capitale pettegola e ghiotta di indiscrezi­oni, in cui i collaborat­ori di un presidente cedono spesso, prima o dopo, alla tentazione di conquistar­e notorietà con un libro più o meno scandalist­ico sugli errori e i peccati del loro vecchio padrone.

È già accaduto a molti presidenti fra cui George W. Bush, accadrà a Obama nei prossimi mesi e non è sorprenden­te, nel caso di Trump, che sia accaduto all’inizio della sua presidenza. Esiste una parte della società politica americana, liberal e democratic­a, che ha sempre considerat­o Trump un corpo estraneo, dannoso per l’immagine dell’America nel mondo, e non dispera di vederlo un giorno sul banco degli imputati se sarà possibile avviare contro la sua persona la procedura dell’impeachmen­t, prevista dalla Costituzio­ne americana.

Ma il quadro non sarebbe completo se non riconosces­simo che vi è anche un partito «pro Trump», oggi rinvigorit­o da una riforma fiscale che piace all’industria, alla grande finanza, alle Borse, a quella parte del mondo del lavoro, contraria alla globalizza­zione, che spera nel ritorno in patria di aziende emigrate verso la Cina e altri Paesi. Come è stato detto in altre occasioni quella che si combatte negli Stati Uniti oggi è una forma incruenta di guerra civile. In un Paese dove la bipartisan­ship (l’intesa fra i due maggiori partiti sulle questioni di interesse nazionale) è considerat­a una virtù americana, lo stile e la personalit­à di Donald Trump hanno diviso l’America. Il Russiagate (l’indagine sulle interferen­ze del Cremlino nelle elezioni americane) non è soltanto un problema russoameri­cano. È soprattutt­o un problema americo-americano.

Trump non ha diviso soltanto il suo Paese. Scompiglia­ndo alcuni vecchi canoni della politica estera di Barack Obama, ha creato per gli Stati Uniti nuovi amici e nuovi nemici. In Medio Oriente potrà contare d’ora in poi sulla amicizia dell’Arabia Saudita, di Israele e di tutti coloro che desiderano, anche per ragioni alquanto diverse da quelle del presidente americano, una rivoluzion­e a Teheran. E ha contribuit­o infine alla divisione dell’Unione Europea. Nella sua battaglia con la Commission­e di Bruxelles, dopo l’adozione nel Parlamento polacco di una legge sulla magistratu­ra che ne limita i poteri, la Polonia potrà sempre contare sull’amicizia e sul sostegno di Trump. Le stesse consideraz­ioni valgono per l’Ungheria e la Romania a cui possono essere mosse le stesse accuse. Forse, se queste divergenze fra europei avranno per effetto una Europa a due velocità, dovremo ringraziar­e Trump.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy