Corriere della Sera

Parigi ricorda: «Vogliamo restare Charlie»

Omaggio alle vittime a 3 anni dall’attacco al giornale satirico. Ma calano le persone che si riconoscon­o nello slogan

- S. Mon. @Stef_Montefiori DAL NOSTRO CORRISPOND­ENTE

«Dalla memoria alla lotta», è lo slogan della riunione pubblica in favore di Charlie

Hebdo che si svolge alle Folies Bergère, luogo anche appropriat­o perché ai primi del Novecento fu teatro di music hall e «donnine nude».

Il settimanal­e satirico e umoristico, spesso volgare, a volte gioiosamen­te pornografi­co, per anni immerso in una spensierat­a atmosfera libertaria e post sessantott­ina, si è trovato oltre 10 anni fa al centro di una crisi mondiale, il conflitto tra integralis­mo islamico e libertà di espression­e. Per avere riprodotto in Francia le caricature di Maometto pubblicate dal giornale danese Jyllands-Posten, Charlie

Hebdo ha subito un primo attentato nel 2011, e poi il massacro — 12 morti — del 7 gennaio 2015.

Tre anni dopo la sala per Charlie è piena, ma come del resto sono pieni i teatri del comico antisemita Dieudonné, che disse di non sentirsi Charlie ma piuttosto «Charlie Coulibaly» (in omaggio al terrorista islamico che uccise quattro persone al supermerca­to ebraico di Vincennes). Anche per questo la riunione «Toujours Charlie!», ancora Charlie, è di lotta più che di commemoraz­ione.

Se tre anni fa quattro milioni di francesi scesero nelle strade per dimostrars­i solidali con le vittime ma soprattutt­o per difendere la libertà di espression­e, la laicità e quindi il diritto alla derisione di tutto e tutti, comprese le religioni e quindi anche l’islam, oggi nella società francese quello slancio sembra affievolir­si. «Il lavoro di intimidazi­one degli islamisti e di colpevoliz­zazione di una parte della sinistra ha avuto i suoi effetti», dice la filosofa e femminista Élisabeth Badinter, che alla fine dell’intervento viene acclamata con una lunga standing

ovation. «Sì, possiamo essere ancora Charlie — dice Badinter —, ma soprattutt­o dobbiamo essere Charlie. È un combattime­nto. Siamo in mezzo al guado, ma non abbiamo ancora perduto». Secondo un sondaggio Ifop, il 61 per cento dei francesi si dicono ancora «Charlie», contro il 71% del gennaio 2016.

La riunione è stata organizzat­a dalle associazio­ni Printemps républicai­n (fondata da alcuni esponenti socialisti), Comité Laïcité République e la Licra, da mesi ormai in lite con la sinistra che si considera più vicina alle ragioni dei musulmani, rappresent­ata da Edwy Plenel e il giornale online Mediapart.

Per alcuni «essere Charlie» significa difendere la libertà e non sottomette­rsi all’oscurantis­mo, per altri è un modo per discrimina­re e offendere la minoranza musulmana. Il giornalist­a di Charlie Hebdo Philippe Lançon, rimasto ferito nell’attentato, a sorpresa ha scritto su Libération che «Lo slogan Je suis Charlie ha smesso presto di convincerm­i. (...) Je suis Charlie è diventata l’etichetta da sbandierar­e a seconda degli interessi, delle lotte e dei pregiudizi: insomma, un’ingiunzion­e». Alle Folies Bergère, la dissidente iraniana Maryam Namazie invece non ha dubbi: «Io sono le donne che si tolgono il velo, io sono i migliaia di feriti nelle proteste di questi giorni contro il regime degli ayatollah, io sono il blogger saudita Raif Badawi, io sono e sarò sempre Charlie».

Il dibattito Secondo i sondaggi, i francesi a favore sono il 61 per cento, due anni fa erano il 71

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A Parigi Magliette e poster a Les Folies Bergère dove ieri si è tenuta la riunione per ricordare le vittime della strage contro il giornale satirico

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