Esigenti o indulgenti (con noi stessi)
L’eterno dilemma fra essere ambiziosi o saper accogliere le proprie fragilità Lo psicoterapeuta: no al perfezionismo, è giusto guardarsi con occhio benevolo
Pretendere di più da se stessi. Ogni elenco dei buoni propositi d’inizio anno — sfrondato da tutte le variabili e ridotto ai minimi termini — porta lì: dobbiamo essere più. Sicuri di sé (ci ha pensato il New
York Times, in questi giorni, a ricordare gli studi che dimostrano come il semplice apparire più sicuri delle proprie possibilità faccia credere agli altri che meritiamo maggior rispetto e ammirazione), performanti, reattivi, concentrati sull’obiettivo, se davvero quest’anno vogliamo raggiungerlo. Insomma, più esigenti con noi stessi e poi, va da sé, anche con gli altri, con i colleghi per esempio, perché non c’è niente di peggio che l’essere frenati nella corsa dagli incompetenti che si incrociano lungo il cammino. Però c’è anche una voce contraria, dice che forse tutto questo galoppare a testa bassa non porta da nessuna parte e il proposito capace di farci svoltare davvero dovrebbe essere un altro: coltivare l’indulgenza, imparando a riconoscere le fragilità nostre e altrui senza giudicarle, per forza, come zavorre che ci faranno affondare.
Esigenti o indulgenti: da che parte stare? È il derby d’inizio anno: nella prima squadra militano i perfezionisti, o gli aspiranti tali, quelli sempre sicuri di sé (almeno all’apparenza), che pretendono tutto, hanno cancellato dal loro vocabolario la parola «abbastanza» e puntano a prestazioni sempre più elevate; nella seconda c’è chi sta coltivando un’idea più «morbida» della vita, magari ha già sperimentato l’effetto potenzialmente tossico del perfezionismo e ha fatto dell’indulgenza una salutare via di fuga, elevandola a valore filosofico.
Giancarlo Dimaggio, psichiatra e psicoterapeuta, messo di fronte alla necessità di scegliere — in quale squadra giocare? — va di slancio sulla seconda perché i perfezionisti, racconta, li conosce così bene («la mia è una storia di perfezionismo obbligato, in famiglia lo erano tutti») da aver imparato, negli anni, a prenderne le distanze. Ne incontra tanti nel suo studio, schiacciati da standard di prestazione, a volte fuori dalla realtà, che loro fanno di tutto per raggiungere, «con a tratti la sensazione di potercela anche fare, ma comunque, sempre, accompagnati dalla strisciante percezione di essere un bluff, persone non alEppure l’altezza». È la maledizione di questa tipologia umana, «provano vergogna quando il loro difetto viene scoperto e se ne attribuiscono la responsabilità: colpa mia, avrei dovuto impegnarmi di più».
non si può buttare tutto a mare, essere esigenti con se stessi serve, lo sa bene chiunque stia cercando di farsi una posizione e costruirsi una carriera. In assenza di un parametro scientifico capace di darci la misura del «perfezionismo perfetto», funzionale a farci raggiungere gli obiettivi ma al tempo stesso capace di renderci anche un po’ felici, Dimaggio dà la sua ricetta: porsi standard di performance «dignitosamente elevati, magari un poco superiori a quelli che ci eravamo prefissati l’anno prima», accompagnati però dalla «fiducia di potercela fare, perché questo motiva all’impegno senza il quale, lo sappiamo tutti, non si va da nessuna parte» e uniti, infine, alla capacità di «cambiare stato, cioè saper ascoltare altre parti di sé: mi sono fatto un mazzo così, ora ho bisogno di andare al cinema, non solo per staccare, ma per portare la mente da un’altra parte».
Non è forse, questa, già una forma di indulgenza che aiuta a guardare se stessi, le proprie forze e possibilità, in modo più obiettivo, realistico (e amore vole)? «Per ora, questo è il mio punto d’arrivo: dopo tanto inseguire la perfezione, ritengo moralmente giusto riuscire a guardarmi con un occhio benevolo».
«Why self-compassion beats self-confidence», titola il New York Times. Perché sarà pur vero che pretendere molto da sé e apparire sicuri premia, ma chi impara l’arte dell’indulgenza, alla fine, ci guadagna. E come si impara? «Qualsiasi attitudine psicologica può essere allenata — riprende Dimaggio —. Si possono coltivare pratiche orientali ormai laicizzate, come la meditazione. Ci sono aziende illuminate che già mescolano la tensione alla performance con esercizi alla gratitudine. È la cultura dell’apprezzamento dell’altro quella in cui dobbiamo impegnarci: e a forza di allenarsi, finirà che impareremo anche ad apprezzare noi stessi, pur con tutti i nostri limiti».
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