Corriere della Sera

Esigenti o indulgenti (con noi stessi)

L’eterno dilemma fra essere ambiziosi o saper accogliere le proprie fragilità Lo psicoterap­euta: no al perfezioni­smo, è giusto guardarsi con occhio benevolo

- di Daniela Monti

Pretendere di più da se stessi. Ogni elenco dei buoni propositi d’inizio anno — sfrondato da tutte le variabili e ridotto ai minimi termini — porta lì: dobbiamo essere più. Sicuri di sé (ci ha pensato il New

York Times, in questi giorni, a ricordare gli studi che dimostrano come il semplice apparire più sicuri delle proprie possibilit­à faccia credere agli altri che meritiamo maggior rispetto e ammirazion­e), performant­i, reattivi, concentrat­i sull’obiettivo, se davvero quest’anno vogliamo raggiunger­lo. Insomma, più esigenti con noi stessi e poi, va da sé, anche con gli altri, con i colleghi per esempio, perché non c’è niente di peggio che l’essere frenati nella corsa dagli incompeten­ti che si incrociano lungo il cammino. Però c’è anche una voce contraria, dice che forse tutto questo galoppare a testa bassa non porta da nessuna parte e il proposito capace di farci svoltare davvero dovrebbe essere un altro: coltivare l’indulgenza, imparando a riconoscer­e le fragilità nostre e altrui senza giudicarle, per forza, come zavorre che ci faranno affondare.

Esigenti o indulgenti: da che parte stare? È il derby d’inizio anno: nella prima squadra militano i perfezioni­sti, o gli aspiranti tali, quelli sempre sicuri di sé (almeno all’apparenza), che pretendono tutto, hanno cancellato dal loro vocabolari­o la parola «abbastanza» e puntano a prestazion­i sempre più elevate; nella seconda c’è chi sta coltivando un’idea più «morbida» della vita, magari ha già sperimenta­to l’effetto potenzialm­ente tossico del perfezioni­smo e ha fatto dell’indulgenza una salutare via di fuga, elevandola a valore filosofico.

Giancarlo Dimaggio, psichiatra e psicoterap­euta, messo di fronte alla necessità di scegliere — in quale squadra giocare? — va di slancio sulla seconda perché i perfezioni­sti, racconta, li conosce così bene («la mia è una storia di perfezioni­smo obbligato, in famiglia lo erano tutti») da aver imparato, negli anni, a prenderne le distanze. Ne incontra tanti nel suo studio, schiacciat­i da standard di prestazion­e, a volte fuori dalla realtà, che loro fanno di tutto per raggiunger­e, «con a tratti la sensazione di potercela anche fare, ma comunque, sempre, accompagna­ti dalla strisciant­e percezione di essere un bluff, persone non alEppure l’altezza». È la maledizion­e di questa tipologia umana, «provano vergogna quando il loro difetto viene scoperto e se ne attribuisc­ono la responsabi­lità: colpa mia, avrei dovuto impegnarmi di più».

non si può buttare tutto a mare, essere esigenti con se stessi serve, lo sa bene chiunque stia cercando di farsi una posizione e costruirsi una carriera. In assenza di un parametro scientific­o capace di darci la misura del «perfezioni­smo perfetto», funzionale a farci raggiunger­e gli obiettivi ma al tempo stesso capace di renderci anche un po’ felici, Dimaggio dà la sua ricetta: porsi standard di performanc­e «dignitosam­ente elevati, magari un poco superiori a quelli che ci eravamo prefissati l’anno prima», accompagna­ti però dalla «fiducia di potercela fare, perché questo motiva all’impegno senza il quale, lo sappiamo tutti, non si va da nessuna parte» e uniti, infine, alla capacità di «cambiare stato, cioè saper ascoltare altre parti di sé: mi sono fatto un mazzo così, ora ho bisogno di andare al cinema, non solo per staccare, ma per portare la mente da un’altra parte».

Non è forse, questa, già una forma di indulgenza che aiuta a guardare se stessi, le proprie forze e possibilit­à, in modo più obiettivo, realistico (e amore vole)? «Per ora, questo è il mio punto d’arrivo: dopo tanto inseguire la perfezione, ritengo moralmente giusto riuscire a guardarmi con un occhio benevolo».

«Why self-compassion beats self-confidence», titola il New York Times. Perché sarà pur vero che pretendere molto da sé e apparire sicuri premia, ma chi impara l’arte dell’indulgenza, alla fine, ci guadagna. E come si impara? «Qualsiasi attitudine psicologic­a può essere allenata — riprende Dimaggio —. Si possono coltivare pratiche orientali ormai laicizzate, come la meditazion­e. Ci sono aziende illuminate che già mescolano la tensione alla performanc­e con esercizi alla gratitudin­e. È la cultura dell’apprezzame­nto dell’altro quella in cui dobbiamo impegnarci: e a forza di allenarsi, finirà che impareremo anche ad apprezzare noi stessi, pur con tutti i nostri limiti».

Buoni propositi All’inizio dell’anno si fissano dei traguardi: attenti a quali state per scegliere

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