Corriere della Sera

L’INGLESE LINGUA DI LAVORO? NON È LA SCELTA MIGLIORE

Istruzione Nelle nostre università si tende ormai a considerar­e l’italiano residuale, anche quando non esiste la minima necessità di evitarne l’impiego

- di Giovanni Belardelli

Dubbi All’estero, però, spesso ci si interroga sui notevoli rischi di una anglofonia acritica Pericoli Anche la conferenza dei rettori tedeschi ha messo in guardia contro svolte troppo radicali

È possibile che nell’università italiana, e tra italiani, la lingua di lavoro diventi l’inglese? Sì, è precisamen­te quello che sta già accadendo, sia pure nella disattenzi­one generale. Ad alcuni docenti (tra i quali chi scrive) è appena capitato di ricevere da un ateneo la richiesta di esaminare e valutare un progetto di ricerca. E fin qui sarebbe tutto normale. Il punto è che l’intera procedura — le mail del rettore che formulava la richiesta, il progetto da valutare, il giudizio espresso dal valutatore — doveva svolgersi unicamente in inglese.

Più che di un caso limite, si trattava in realtà di una solerte anticipazi­one di una linea di condotta ministeria­le che va diventando sempre più evidente. Il 27 dicembre il Miur ha pubblicato il bando Prin 2017, cioè il principale strumento per il finanziame­nto pubblico della ricerca di base attraverso il quale verranno assegnati 391 milioni all’intero sistema universita­rio. Quest’anno le modalità di partecipaz­ione contengono una significat­iva novità rispetto al bando precedente: «La domanda [cioè progetto di ricerca, cv dei partecipan­ti, piano finanziari­o ecc.] è redatta in lingua inglese; a scelta del proponente, può essere fornita anche una ulteriore versione in lingua italiana». Come dire, se proprio ci tenete, usate anche l’italiano, ma per noi non serve.

Siamo dunque di fronte a una tendenza, apparentem­ente inarrestab­ile, all’utilizzazi­one prevalente o esclusiva dell’inglese anche quando non ve ne sarebbe necessità, quasi che si consideras­se l’italiano una lingua residuale. Nelle nostre scuole, del resto, si va verso un uso scriteriat­o dell’inglese nelle materie curricolar­i, una delle quali dovrà essere obbligator­iamente insegnata appunto in questa lingua (come ha ricordato sul

Corriere Paolo Di Stefano il 23 dicembre). Così la lezione di fisica (speriamo che quella di italiano o di greco in inglese ci sia risparmiat­a) diventerà l’occasione per far pratica in inglese, invece che essere esclusivam­ente lo strumento per insegnare una materia che non proprio tutti gli studenti trovano facile.

Sono anni, in realtà, che l’intero sistema universita­rio italiano è costretto a muoversi verso un uso generalizz­ato dell’inglese grazie al fatto che i governi, di qualunque colore siano, assegnano maggiori risorse agli atenei in proporzion­e alle pubblicazi­oni e ai corsi di laurea in questa lingua. L’introduzio­ne di tali corsi rappresent­a un fenomeno non solo italiano. All’estero, però, spesso ci si interroga sui rischi di un uso acritico dell’inglese, cosa che in Italia evitiamo di fare (si sa, noi siamo esterofili a corrente alternata). In un recente articolo pubblicato su Times Higher

Education, intitolato «Why teaching in English may not be such a good idea», Michele Gazzola, ricercator­e della Humboldt Universitä­t di Berlino, riassume così le conclusion­i di una ricerca svolta tra studenti universita­ri austriaci con buona conoscenza dell’inglese: «Il contenuto delle lezioni era meglio compreso dagli studenti quando l’insegnamen­to era tradotto in tedesco da un interprete profession­ale, invece che ascoltato direttamen­te in inglese». Da parte sua la conferenza dei rettori tedeschi ha messo in guardia contro i minori risultati ottenuti con lezioni impartite agli studenti in una lingua diversa dalla loro lingua madre.

Non risulta che riflession­i del genere stiano suscitando alcun interesse da parte del nostro ceto politico, sempre più privo di qualunque idea sull’Italia, dunque particolar­mente disponibil­e ad accogliere ogni idea di modernità che abbia una patina anglicizza­nte. Ma nel nostro Paese, si dirà, un uso sia pure inappropri­ato dell’inglese potrà almeno servire a rendere questa lingua più e meglio utilizzata di quanto non sia stato fino ad ora. È lecito qualche dubbio. Limitandom­i all’università, segnalo che non è difficile trovare in rete nostri professori ordinari che si definiscon­o «ordinary professor», che vuol dire professore qualunque; oppure «enabled as associated professor», che sempliceme­nte non vuol dire niente.

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