RIVOLUZIONE DEI CURRICULA PER COMINCIARE A CAMBIARE
Caro direttore, i limiti e le debolezze di cui la nostra cultura giuridica oggi soffre sono al centro di riflessioni aperte su questo giornale. Alcuni dati sono stati però fin qui sottovalutati e meritano invece l’evidenza.
Si ripete che viviamo circondati da un numero eccessivo di norme. In realtà, il carico normativo che grava sul Paese non è superiore a quello degli altri Paesi occidentali (cifre illuminanti vengono dai rapporti «Regulatory Reform» scaricabili al sito dell’Oecd). Certo, il tema della semplificazione e del miglioramento della qualità della regolazione è avvertito ovunque (si veda lo stesso sito Oecd, oppure si prenda in mano una legge del Congresso Usa). Da noi, tuttavia, ad essere inadeguata al secolo, al mondo e allo stesso Paese in cui viviamo è soprattutto e proprio la cultura giuridica dei ceti professionali. La formazione di questi nasce nelle università. Per conseguenza, qualsiasi elogio o critica alla cultura di professionisti, legislatori e burocrati va rivolta, prima che a ogni altro obiettivo, a quei centri di produzione di sapere.
In particolare, l’internazionalizzazione della formazione dei giuristi è una necessità che dovrebbe essere ben chiara a tutto il Paese. Eppure i curricula obbligatori dei corsi di Giurisprudenza sono centrati al 90 per cento sullo studio del diritto interno.
Nessuna sorpresa allora che i legislatori, le magistrature, talune agenzie non siano in grado di conoscere e assorbire le migliori pratiche espresse da altre culture giuridiche. Nessuna sorpresa se la cultura di molti professionisti, del diritto e delle istituzioni, sembra vivere astretta fra provincialismo e surrealtà. Si scorge la dimensione della provincia nella tardività o nella sommarietà con cui si ricevono flussi di dibattiti altrui e, sovente, se ne discutono le coordinate senza alcuna contestualizzazione comparativa. Ma è la prospettiva del surreale a farsi strada quando si osserva l’atteggiamento di molti di quei professionisti, assertivi e compiaciuti fra le mura nostrane, balbuzienti o inascoltati fuori da esse. A tacere di molto altro, è questa una cultura che non serve né a se stessa, né al Paese di cui è espressione. Che non promuova lo status internazionale del Paese ce lo segnala tenacemente ogni statistica.
Intendiamoci: niente di grave se riteniamo non importante che il nostro Paese non riesca a introiettare capillarmente la cultura (da tempo diffusa altrove) dei controlli sostanziali ex post e resti accanita e abbarbicata su quella dei controlli formali ex ante (su cui limpidamente Sabino Cassese nel Corriere del 31 ottobre). Niente di grave se riteniamo non importante che l’Italia abbia voce scarsa o nulla nel disegno quotidiano delle regole europee, e sia terra di conquista per modelli giuridici altrui, spesso veicolati senza consapevolezza delle implicazioni o delle necessità che quei trapianti recano con sé.
Se invece pensiamo ai centri produttori di cultura giuridica come serbatoi di una classe dirigente che sappia competere efficacemente sul mercato delle idee e delle soluzioni, al servizio del Paese e del suo sistema socio-economico, una vera rivoluzione dei curricula è il primo (ma solo il primo) degli imperativi a venire.
Docente ordinario di Diritto comparato, Università di Trieste
Scarsa apertura A Giurisprudenza i corsi sono centrati al 90% sullo studio del diritto interno Prospettive diverse Molti professionisti assertivi fra le mura nostrane sono inascoltati al di fuori