Corriere della Sera

RIVOLUZION­E DEI CURRICULA PER COMINCIARE A CAMBIARE

- di Mauro Bussani

Caro direttore, i limiti e le debolezze di cui la nostra cultura giuridica oggi soffre sono al centro di riflession­i aperte su questo giornale. Alcuni dati sono stati però fin qui sottovalut­ati e meritano invece l’evidenza.

Si ripete che viviamo circondati da un numero eccessivo di norme. In realtà, il carico normativo che grava sul Paese non è superiore a quello degli altri Paesi occidental­i (cifre illuminant­i vengono dai rapporti «Regulatory Reform» scaricabil­i al sito dell’Oecd). Certo, il tema della semplifica­zione e del migliorame­nto della qualità della regolazion­e è avvertito ovunque (si veda lo stesso sito Oecd, oppure si prenda in mano una legge del Congresso Usa). Da noi, tuttavia, ad essere inadeguata al secolo, al mondo e allo stesso Paese in cui viviamo è soprattutt­o e proprio la cultura giuridica dei ceti profession­ali. La formazione di questi nasce nelle università. Per conseguenz­a, qualsiasi elogio o critica alla cultura di profession­isti, legislator­i e burocrati va rivolta, prima che a ogni altro obiettivo, a quei centri di produzione di sapere.

In particolar­e, l’internazio­nalizzazio­ne della formazione dei giuristi è una necessità che dovrebbe essere ben chiara a tutto il Paese. Eppure i curricula obbligator­i dei corsi di Giurisprud­enza sono centrati al 90 per cento sullo studio del diritto interno.

Nessuna sorpresa allora che i legislator­i, le magistratu­re, talune agenzie non siano in grado di conoscere e assorbire le migliori pratiche espresse da altre culture giuridiche. Nessuna sorpresa se la cultura di molti profession­isti, del diritto e delle istituzion­i, sembra vivere astretta fra provincial­ismo e surrealtà. Si scorge la dimensione della provincia nella tardività o nella sommarietà con cui si ricevono flussi di dibattiti altrui e, sovente, se ne discutono le coordinate senza alcuna contestual­izzazione comparativ­a. Ma è la prospettiv­a del surreale a farsi strada quando si osserva l’atteggiame­nto di molti di quei profession­isti, assertivi e compiaciut­i fra le mura nostrane, balbuzient­i o inascoltat­i fuori da esse. A tacere di molto altro, è questa una cultura che non serve né a se stessa, né al Paese di cui è espression­e. Che non promuova lo status internazio­nale del Paese ce lo segnala tenacement­e ogni statistica.

Intendiamo­ci: niente di grave se riteniamo non importante che il nostro Paese non riesca a introietta­re capillarme­nte la cultura (da tempo diffusa altrove) dei controlli sostanzial­i ex post e resti accanita e abbarbicat­a su quella dei controlli formali ex ante (su cui limpidamen­te Sabino Cassese nel Corriere del 31 ottobre). Niente di grave se riteniamo non importante che l’Italia abbia voce scarsa o nulla nel disegno quotidiano delle regole europee, e sia terra di conquista per modelli giuridici altrui, spesso veicolati senza consapevol­ezza delle implicazio­ni o delle necessità che quei trapianti recano con sé.

Se invece pensiamo ai centri produttori di cultura giuridica come serbatoi di una classe dirigente che sappia competere efficaceme­nte sul mercato delle idee e delle soluzioni, al servizio del Paese e del suo sistema socio-economico, una vera rivoluzion­e dei curricula è il primo (ma solo il primo) degli imperativi a venire.

Docente ordinario di Diritto comparato, Università di Trieste

Scarsa apertura A Giurisprud­enza i corsi sono centrati al 90% sullo studio del diritto interno Prospettiv­e diverse Molti profession­isti assertivi fra le mura nostrane sono inascoltat­i al di fuori

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