Corriere della Sera

I collegi (in)sicuri tormento dei big

Il dilemma: correre dei rischi o stare al riparo? Sparite le roccaforti dem di un tempo

- Tommaso Labate

«È inutile che stiamo a ROMA girarci attorno. I collegi sicuri, fuori da Toscana ed Emilia, non esistono più. Anche a Roma la situazione è drammatica...». Alle sette di ieri pomeriggio, nel quartier generale del Pd al Nazareno, ci sono due stanze con le luci accese. Gli sherpa che stanno ultimando il lavoro preliminar­e sulla catalogazi­one dei collegi del maggiorita­rio — le quattro gradazioni vanno da «perso sicurament­e» a «sicuro», passando per «difficile» e «probabile» — sono sfiniti. E quando il radar della ciurma si concentra su Roma, ecco che si apre un problema.

Nella Capitale, su undici collegi del maggiorita­rio, il Pd potrebbe intestarse­ne due. Il problema è che su nessuno dei due — Centro storico e Parioli-Trieste — c’è il bollino «sicuro». Entrambi sono catalogati

La caccia ai seggi In passato le figure più forti lasciavano i posti certi agli alleati Oggi è il contrario

alla voce «probabile». Ed entrambi rappresent­ano troppi rischi per la candidatur­a di Paolo Gentiloni. E così, a dispetto di quella che pareva una quadra già trovata, il premier potrebbe uscire dalla rosa dei candidati al maggiorita­rio e giocare solo nei listini. Oppure, altra opzione, potrebbe candidarsi ma non a Roma. Forse in Umbria, forse nelle Marche, in Emilia o Toscana. Anche perché — ed è il punto cruciale di tutte le discussion­i che riguardano la candidatur­a dei big nei collegi — perdere nel testa a testa contro un esponente del centrodest­ra o del M5S potrebbe sancire l’addio ai sogni di gloria per il dopo elezioni. D’altronde, è il ragionamen­to svolto nelle riunioni riservate del Pd, «come può pretendere di fare il premier o il ministro delle larghe intese o anche solo il presidente di una Camera uno che perde nel collegio del maggiorita­rio e in Parlamento c’è tornato da nominato?».

Lontani i tempi in cui i «padri» del Pd usavano i collegi delle regioni rosse per paracaduta­re qualche alleato a cui non si poteva dire di no (il comunista Oliviero Diliberto, nel 1996, vinceva nella prodiana Scandiano col 58%), lontani anche quelli in cui lo stesso Prodi teneva per sé l’area Bologna-Mazzini superando quota 60, adesso c’è di che essere preoccupat­i. Basta compulsare, come fanno in tanti, i dati dell’ultimo referendum. Franceschi­ni correrà a Ferrara, dove il No ha vinto col 53,54 per cento (collegio dato come «probabile»). Minniti, se davvero correrà a Reggio Calabria, deve fare i conti col fatto che il No — sulla riva calabrese dello Stretto — ha sfiorato il 70 (collegio dato come «difficile»).

Nel centrodest­ra c’è il problema opposto. Blindati Veneto, Lombardia, Campania e ora anche la Sicilia, il tema sarà come spartirsi gli oltre cento seggi bollati col marchio «sicuro». La trattativa sarà lunga e le certezze poche, come quella della corsa a Milano città di Salvini. Se nel Pd c’è un fuggi fuggi dai collegi, tra le quattro punte del centrodest­ra ci sarà la corsa ad accaparrar­seli. Tema che, nei Cinquestel­le, non riguarderà Luigi Di Maio. Per un papabile a Palazzo Chigi vale lo stesso discorso di Gentiloni. Dal maggiorita­rio meglio stare alla larga.

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