I collegi (in)sicuri tormento dei big
Il dilemma: correre dei rischi o stare al riparo? Sparite le roccaforti dem di un tempo
«È inutile che stiamo a ROMA girarci attorno. I collegi sicuri, fuori da Toscana ed Emilia, non esistono più. Anche a Roma la situazione è drammatica...». Alle sette di ieri pomeriggio, nel quartier generale del Pd al Nazareno, ci sono due stanze con le luci accese. Gli sherpa che stanno ultimando il lavoro preliminare sulla catalogazione dei collegi del maggioritario — le quattro gradazioni vanno da «perso sicuramente» a «sicuro», passando per «difficile» e «probabile» — sono sfiniti. E quando il radar della ciurma si concentra su Roma, ecco che si apre un problema.
Nella Capitale, su undici collegi del maggioritario, il Pd potrebbe intestarsene due. Il problema è che su nessuno dei due — Centro storico e Parioli-Trieste — c’è il bollino «sicuro». Entrambi sono catalogati
La caccia ai seggi In passato le figure più forti lasciavano i posti certi agli alleati Oggi è il contrario
alla voce «probabile». Ed entrambi rappresentano troppi rischi per la candidatura di Paolo Gentiloni. E così, a dispetto di quella che pareva una quadra già trovata, il premier potrebbe uscire dalla rosa dei candidati al maggioritario e giocare solo nei listini. Oppure, altra opzione, potrebbe candidarsi ma non a Roma. Forse in Umbria, forse nelle Marche, in Emilia o Toscana. Anche perché — ed è il punto cruciale di tutte le discussioni che riguardano la candidatura dei big nei collegi — perdere nel testa a testa contro un esponente del centrodestra o del M5S potrebbe sancire l’addio ai sogni di gloria per il dopo elezioni. D’altronde, è il ragionamento svolto nelle riunioni riservate del Pd, «come può pretendere di fare il premier o il ministro delle larghe intese o anche solo il presidente di una Camera uno che perde nel collegio del maggioritario e in Parlamento c’è tornato da nominato?».
Lontani i tempi in cui i «padri» del Pd usavano i collegi delle regioni rosse per paracadutare qualche alleato a cui non si poteva dire di no (il comunista Oliviero Diliberto, nel 1996, vinceva nella prodiana Scandiano col 58%), lontani anche quelli in cui lo stesso Prodi teneva per sé l’area Bologna-Mazzini superando quota 60, adesso c’è di che essere preoccupati. Basta compulsare, come fanno in tanti, i dati dell’ultimo referendum. Franceschini correrà a Ferrara, dove il No ha vinto col 53,54 per cento (collegio dato come «probabile»). Minniti, se davvero correrà a Reggio Calabria, deve fare i conti col fatto che il No — sulla riva calabrese dello Stretto — ha sfiorato il 70 (collegio dato come «difficile»).
Nel centrodestra c’è il problema opposto. Blindati Veneto, Lombardia, Campania e ora anche la Sicilia, il tema sarà come spartirsi gli oltre cento seggi bollati col marchio «sicuro». La trattativa sarà lunga e le certezze poche, come quella della corsa a Milano città di Salvini. Se nel Pd c’è un fuggi fuggi dai collegi, tra le quattro punte del centrodestra ci sarà la corsa ad accaparrarseli. Tema che, nei Cinquestelle, non riguarderà Luigi Di Maio. Per un papabile a Palazzo Chigi vale lo stesso discorso di Gentiloni. Dal maggioritario meglio stare alla larga.