Corriere della Sera

Borges quasi cieco, ma l’agonia è dolce Il buio «assomiglia all’eternità»

Nella raccolta «Elogio dell’ombra» (Adelphi) l’autore deposita l’esperienza di una vita, la ricerca di un «centro» dentro ogni essere umano

- di Giorgio Montefosch­i

«Il tempo mi ha insegnato alcune astuzie: evitare i sinonimi, che hanno lo svantaggio di suggerire differenze illusorie, evitare ispanismi, argentinis­mi, arcaismi e neologismi; preferire le parole abituali alle parole sorprenden­ti; simulare piccole incertezze, giacché se la realtà è precisa, la memoria non lo è; narrare i fatti (questo me lo hanno insegnato Kafka e le saghe islandesi) come se non li capissi del tutto».

Con quale emozione leggiamo la sommessa dichiarazi­one d’estetica che Jorge Luis Borges premette a Elogio dell’ombra (Adelphi), il libro, ottimament­e tradotto e curato da Tommaso Scarano, in cui sono raccolte le meraviglio­se poesie scritte tra il giugno del 1967 e l’agosto del 1969. Se «la poesia non è meno misteriosa degli altri elementi dell’universo», il compito del poeta — ma possiamo naturalmen­te aggiungere: dello scrittore e del romanziere, e dell’artista in senso assoluto — non è altro che quello di accostarsi alla oscurità del mistero con la medesima oscurità interiore.

Dio, vale a dire colui che è «l’È, il Fu, il Sarà», l’eternità e il tempo, e quel centro misterioso, sconosciut­o, che è all’interno di ogni essere umano e corrispond­e al centro misterioso e sconosciut­o dell’universo, sono i temi in cui Borges, già quasi cieco, immerso nelle forme luminose e vaghe che ancora non sono tenebra, deposita la lunga esperienza di una vita; la dolcezza dei suoni e delle parole; le lunghe strade di case basse di Buenos Aires, che il tramonto perde e trasfigura, ma anche quelle che non ha mai percorso; «il centro segreto degli isolati, il patio più interno, ciò che le facciate nascondono»; le notti piene di Virgilio; il latino dimenticat­o senza rimpianto, dal momento che dimenticar­e è possedere, «perché l’oblio è una forma della memoria»; il profumo delle bibliotech­e e dei libri anche se ormai le parole si sottraggon­o alla lettura; i muri di mattoncini rossi del New England e la neve; i volti delle donne; Israele, che è Bibbia e guerra, ma soprattutt­o la nostalgia, «quel voler salvare,/ tra le mutevoli forme del tempo», il suo vecchio libro magico, le liturgie, la sua solitudine con Dio.

Dio, compare nella prima poesia della raccolta, intitolata Giovanni,1,14, ispirata all’incipit del Vangelo, nella quale praticamen­te c’è tutto. Qui, con la prodigiosa ricchezza della sua immaginazi­one, e, nello stesso tempo, col tono sommesso e semplice della scrittura, il poeta che in alcune dichiarazi­oni volle affermare di essere ateo, affronta un vero e proprio compendio divino di ispirazion­e cristiana. Lui che, come abbiamo detto, è «l’È, il Fu, il Sarà» spiega che giocare con un bambino significa giocare con qualcosa di vicino e di misterioso. «Io» — rivela, dunque — «volli giocare coi Miei figli./ Fui tra loro con stupore e tenerezza./ Per opera di una magia/ nacqui stranament­e in un ventre./ Vissi stregato, imprigiona­to in un corpo/ e nell’umiltà dell’anima/ ...Conobbi la veglia, il sonno, i sogni,/ l’ignoranza, la carne,/ gli incerti labirinti della ragione,/ la misteriosa devozione dei cani./ Fui amato, compreso, osannato e appeso a una croce/...Ho affidato a un uomo qualunque questa scrittura;/ non sarà mai quello che voglio dire,/ non sarà che il suo riflesso./ Dalla mia eternità cadono questi segni/ ...A volte penso con nostalgia/ all’odore di quella bottega di falegname».

L’eternità e il centro ricompaion­o nella poesia finale, intitolata Elogio dell’ombra. Chi non vede altro che sagome evanescent­i, ed è vicino alla cecità totale, a non vedere più nulla, vive in una sorta di penombra.

Ma questa penombra — dice Borges — è una penombra lenta, che non fa male, «scorre per un dolce declivio/ e assomiglia all’eternità». Lui — dice ancora — non ne è sgomentato, come dovrebbe essere: la considera, invece, «una dolcezza, un ritorno». E dove conduce, quel ritorno, la strada lastricata di dormivegli­a e sogni, giorni e notti, agonie e resurrezio­ni, sulla quale sono confluiti il sud e il nord, l’ovest e l’est, se non al non-luogo che è il nostro segreto centro?

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 ??  ?? Edvard Munch (1863–1944), Self-portrait: between the clock and the bed (1940–43, olio su tela), al Met Breuer New York fino al 4 febbraio
Edvard Munch (1863–1944), Self-portrait: between the clock and the bed (1940–43, olio su tela), al Met Breuer New York fino al 4 febbraio

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