Corriere della Sera

Nella fiaba nera il femminile rinasce E impazzisce

- di Carlo Baroni

Un mondo senza donne. Niente madri, né figlie. Dove non ci sono neanche nonne e sorelle. Un pianeta declinato solo al maschile. Le donne vittime di un letargo misterioso. Addormenta­te sotto una coltre appiccicos­a. Un «fazzoletto delle fate» che le copre non appena prendono sonno. E guai a svegliarle. L’incantesim­o si rompe, ma non c’è nessun principe azzurro a baciare la principess­a. La fine del sonno scatena l’inferno: la donna liberata si avventa sul suo salvatore e lo azzanna (non è un eufemismo): nasi staccati dal viso, unghie conficcate negli occhi, sangue che sgocciola dalle gole. Una fiaba nera che non sai come andrà a finire. Di quelle che gli effetti speciali sono così reali da crederci. Se non fosse che a scrivere una storia così sia Stephen King, questa volta a quattro mani con il figlio Owen, si potrebbe liquidare come il «solito» romanzo horror. Il Re, invece, è un’altra cosa. E la paura è solo un tassello di un mosaico più complicato. C’è di mezzo l’inconscio e la parte oscura di ognuno di noi. Le sue sono storie così disperate che finisci per credere alla Speranza.

La location sembra fatta apposta. L’America profonda che non vedi nei film e nei notiziari del tg. Questa volta sono le contee ai piedi degli Appalachi, West Virginia. Washington non è lontana, ma neanche vicina. Terra di boscaioli e minatori con camicie scozzesi e lunghe ore davanti a una birra. E magari di più, fino a perdere il conto. L’incubo bussa alla porta di una roulotte. E ha un viso e due occhi che non puoi dimenticar­e anche se fatichi a ricordare. Si chiama Evie e puoi giocare con la radice del nome: Evie come

Evil, il Male o come Eva, la prima donna? O forse con tutte e due? Lei appare, massacra un paio di bestioni e poi niente sarà più come prima. Una forza inaudita la circonda, dalla sua bocca escono falene numerose come formiche addosso al miele. E viene in mente il protagonis­ta del

Miglio Verde. Infatti anche in Sleeping beauties (Sperling & Kupfer, traduzione di Giovanni Arduino, pp. 652, 21,90) il carcere è un elemento centrale. Un luogo di detenzione per donne. Prostitute, tossiche o sempliceme­nte disadattat­e. Che bastava nascere cento miglia più in là o scegliersi genitori diversi per cambiarsi la storia.

Quando la pandemia si diffonde per loro è allarme rosso. E anche tutte le donne della contea di Dooling vivono nella certezza che quando le sorprender­à il sonno, il risveglio non sarà il passo successivo. Ci sono anche gli uomini. E non ne escono bene. Insicuri. Immaturi. Impauriti. Che ti viene da chiederti se non fosse stato meglio che a dormire fossero loro. Clint Norcross fa lo psichiatra del carcere. Sua moglie, Lila, lo sceriffo. Hanno un figlio Jared e (il marito), forse, anche un’altra figlia: Shannon. Clint è uno strizzacer­velli che comprende il dolore degli altri perché è anche il suo. Ma capire non vuol dire superare i traumi come direbbe un bravo psicoanali­sta. Lila è tosta e vulnerabil­e. Il figlio è venuto su bene, nonostante tutto. Anche perché a guardarsi attorno non faresti cambio con nessuno. Le detenute sono storie finite male, ma guai a prendersel­a con il Dna o i genitori. Sono scuse e pretesti ai quali non crederebbe più neanche Freud.

Il bello del libro dei due King è che alla fine capisci che il tuo destino dipende da te. Anche in un mondo impazzito, dove regna la magia e le forze soprannatu­rali ti travolgono. Succede quando finalmente ti accorgi che quel mondo è solo dentro di te, anche il Male. E quello che sta fuori lo riconosci all’istante. E ci vuole poco per metterlo fuori combattime­nto. Anche quando ti graffia e fa la voce truce.

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