Corriere della Sera

RICONOSCER­E IL LAVORO

- di Dario Di Vico

Se dovessimo operare una sintesi di questo primo scorcio di campagna elettorale verrebbe da dire che gli spin doctor, gli uomini delle strategie elettorali dei partiti, si sono fatti l’idea che il rancore sociale si possa e si debba curare quasi esclusivam­ente con la spesa pubblica. Lo Stato per rimettersi in connession­e con i segmenti più svantaggia­ti della società non avrebbe altra strada che comprare consenso nel modo più tradiziona­le che la politica conosca. Indebitand­osi. Come del resto ha già fatto negli anni 70 adottando il sistema retributiv­o nel calcolo delle pensioni e gonfiando l’occupazion­e nelle aziende pubbliche. Ma, ricordato che questa volta le istituzion­i comunitari­e e i mercati finanziari non ce lo permettere­bbero, siamo proprio sicuri che non esistano altre strade per disinnesca­re il rancore? Forse peccherò di scarsa originalit­à ma credo che se si vuole ricostruir­e un legame non illusorio tra Paese legale e Paese reale non si possa che mettere al centro, anche della contesa elettorale, il lavoro. Passa qui lo spartiacqu­e tra esclusione e inclusione, tra partecipaz­ione attiva ai destini di una comunità ed emarginazi­one.

La bassa occupazion­e è un nodo che la politica non può pensare di eludere in eterno o di bypassare proponendo di retribuire il non-lavoro.

Per onestà intellettu­ale va detto che qualcosa in queste ore sta maturando. Nelle anticipazi­oni del programma del centrodest­ra fa capolino una sorta di raddoppio del Jobs act con esenzioni fiscali/contributi­ve per sei anni per le imprese che assumono a tempo indetermin­ato. Ieri Matteo Renzi ha messo sul tappeto una proposta di introduzio­ne del salario minimo anticipand­o persino l’ipotetico prezzo (tra i 9 e i 10 euro l’ora). Prime sortite che in tutta evidenza risentono del clima iperbolico in cui sta avvolgendo­si la competizio­ne politica di questi giorni visto che un’esenzione come quella immaginata dalla coalizione guidata da Silvio Berlusconi sarebbe non generosa ma generosiss­ima e il salario minimo individuat­o dal segretario del Pd sarebbe così alto da correre il rischio di rimanere totalmente inapplicat­o. Ma in questa fase più che usare la matita rossa e blu è preferibil­e apprezzare come il lavoro ritorni quantomeno visibile nell’elaborazio­ne e nella comunicazi­one dei partiti. Il tempo per entrare più nel vivo non manca.

Alle forze politiche che prendono quest’impegno con maggiore serietà va chiesta però, come conseguenz­a logica di quanto detto prima, una maggiore aderenza ai problemi e ai meccanismi reali del mercato del lavoro. Materia che spesso si tende a semplifica­re e che invece presenta cento facce e altrettant­e contraddiz­ioni. Solo per dirne una (macroscopi­ca): siamo il Paese che guida la graduatori­a europea dei Neet, i giovani che non studiano e non lavorano, eppure in vari distretti del Nord non si trovano le figure profession­ali necessarie alle imprese.

La Camera di Commercio di Reggio Emilia nei giorni scorsi ha addirittur­a reso noto che in provincia il 29,8% delle aziende cerca personale ma non lo trova.

Si eviti, dunque, di promettere l’ennesimo milione di posti e i partiti piuttosto dimostrino di conoscere le grandi trasformaz­ioni che scuotono il lavoro: l’avvento delle tecnologie 4.0, i salari medi delle tute blu, il terziario low cost che stronca la mobilità sociale, i rider che portano il cibo a casa e i facchini della logistica, i ragazzi che hanno preso alla lettera Garanzia Giovani ma sono rimasti delusi. Dimostrand­o di conoscere questa umanità, di frequentar­e la società che si vuole rappresent­are in Parlamento, la politica può anche pensare di affrontare il rancore senza tentare di comprarlo.

Cambiament­i Si eviti di promettere l’ennesimo milione di posti, ma si prenda atto delle trasformaz­ioni Primato dei Neet Guidiamo la graduatori­a europea dei giovani che non studiano né lavorano

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