Gli uomini di Salvini avvertono Maroni: se non corre ora, non può farlo dopo
Un colpo sotto alla cintura. La rinuncia di Roberto Maroni alla ricandidatura da gran parte della Lega viene considerata come una mossa ai confini dell’intelligenza con il nemico. Che poi il nemico in realtà sarebbe l’alleato, Silvio Berlusconi.
Nessuno leva dalla testa dei salviniani che ci sia un patto occulto tra il loro governatore e il fondatore di Forza Italia. Per depotenziare Salvini e l’ala populista della coalizione, per frenarne la pretesa di premiership. Peggio ancora: per ribaltare i rapporti di forza elettorali anche in Lombardia. Se gli azzurri superassero la Lega persino nella sua regione culla, sarebbe un macigno su quel «Salvini premier» scritto nel simbolo elettorale. Di suo, il segretario leghista annuncia la candidatura a governatore dell’ex sindaco di Varese, Attilio Fontana senza dimenticare di dire grazie «a Maroni e alla sua squadra». Aggiunge che se c’è «una scelta personale, la politica deve fare un passo indietro».
Di certo, lo stesso Maroni non riesce a dissipare il retropensiero leghista. Anche se ieri si è presentato al consiglio «nazionale» della Lombardia (si chiama ancora così quello regionale) per ribadire quanto aveva già detto pubblicamente in mattinata: la rinuncia dipende da «motivi personali». Il governatore, di fronte ai leghisti, salta il passaggio che identifica i 5 Stelle come il nemico. Diversamente da Salvini, che di dialogo con Grillo parla da sempre, e proprio come Berlusconi.
In Lega, la giornata è vissuta nell’attesa. E nel nervosismo. Nessuno ufficialmente apre bocca anche se il partito ha perso il candidato naturale. Tranne che un salviniano doc come Raffaele Volpi, l’uomo che ha iniziato la discesa al Sud organizzando Noi con Salvini. Su Facebook sintetizza bene lo stato d’animo comune: «Però mettiamo che uno si rompe una gamba e non può fare la maratona... e allora non può nemmeno fare il giro d’Italia in bicicletta. (ci siamo capiti vero? Sbaglio?)». Forse una traduzione occorre: dato che si parla di Maroni come di possibile candidato premier con il placet di Silvio Berlusconi, i «motivi personali» che hanno motivato il no alla corsa lombarda dovrebbero valere anche a livello nazionale.
I leghisti attendono soprat- tutto la risposta di Forza Italia. Qualcuno vorrebbe addirittura un aut aut agli alleati. Non arriva né quello né il via libera del Cavaliere. I leghisti ostentano sicurezza, danno per certo che sia cosa fatta. Rinviano al comunicato di domenica firmato dai leader al termine del summit di Arcore. La nota affermava che in assenza di Maroni «verrebbe messo in campo un profilo già comunemente individuato». E quindi, dato che la Lega (che esprimeva Maroni) ha scelto Fontana, il nome non può che essere quello. A dissipare le certezze, arriva la dichiarazione dell’ex sindaco di Varese, che dice di essere soltanto «a metà del guado». Ha ottenuto l’indicazione del suo partito ma deve ancora «fare il passaggio con gli alleati per tutti i ragionamenti del caso». E allora, c’è chi si rifugia in un’altra spiegazione: Berlusconi sta semplicemente aspettando che arrivino i primissimi sondaggi. Che pure, in ogni caso, sconterebbero la meno diffusa notorietà di Fontana. Poi, arriva la notizia che raffredda ulteriormente le convinzioni: anche i tavoli per il programma sono stati rinviati a domani. «Ragioni organizzative» taglia corto il capogruppo leghista alla Camera, Massimiliano Fedriga.
A preoccupare i leghisti anche il problema economico di una campagna elettorale senza il traino di uno dei suoi esponenti più noti: il blocco dei conti disposto dal tribunale di Genova rende più difficile valorizzare il nuovo candidato. Perché l’election day ha sì un forte potenziale di mobilitazione, spiega un parlamentare, ma nel derby interno con Forza Italia «a ricavarne i maggiori benefici potrebbero essere proprio gli alleati».