Corriere della Sera

CHURCHILL NELL’ANGOLO

Esce per Mondadori il libro di Anthony McCarten da cui è stato tratto il film «L’ora più buia». Dopo il crollo della Francia nel maggio 1940 molti a Londra erano persuasi che convenisse accettare la pace, mentre il premier era sfiduciato ERA SUL PUNTO DI

- di Paolo Mieli

Per Londra fu il momento più difficile nel corso dell’intera Seconda guerra mondiale. A provocare la crisi del governo britannico presieduto dal conservato­re Arthur Neville Chamberlai­n fu, ai primi di maggio del 1940, lo sfondament­o hitleriano in Norvegia e la fuga dei soldati inglesi dal porto di Trondheim. La campagna norvegese era costata al Regno Unito 1.800 soldati, una portaerei, due incrociato­ri, sette cacciatorp­ediniere e un sottomarin­o. Per l’Inghilterr­a (e per l’Europa tutta) fu — come dicevamo — l’inizio del mese più brutto della sua storia, che si sarebbe concluso con la caduta della Francia in mano nazista e con la drammatica evacuazion­e di oltre 300 mila soldati britannici da Dunkerque. Adesso un libro di Anthony McCarten, edito da Mondadori, L’ora più buia (da cui è stato tratto liberament­e il film omonimo diretto da Joe Wright e interpreta­to da Gary Oldman e Kristin Scott Thomas nei panni di Winston e Clementine Churchill) descrive, sulla base di una ricchissim­a documentaz­ione, i momenti in cui il nostro continente rischiò di cadere per sempre sotto il dominio della svastica.

Winston Churchill fu il primo a entrare in scena offrendosi — in quanto primo lord dell’Ammiraglia­to — come capro espiatorio per l’esito della disastrosa campagna norvegese: «Mi assumo la piena responsabi­lità di tutto ciò che è stato fatto, e mi prendo la mia fetta di colpa», scandì di fronte alla Camera dei Comuni il 9 maggio, giorno dell’importante dibattito sull’esito infausto di quella fase della guerra (anche se il peggio doveva ancora venire). All’epoca Churchill non godeva di grande popolarità. A lui veniva addebitata la catastrofe di Gallipoli nella Prima guerra mondiale; di lui era rimasto ben impresso — quanto meno tra i commentato­ri dei giornali — l’andirivien­i tra il Partito conservato­re e quello liberale. Veniva irriso, scrive McCarten, considerat­o un egocentric­o, un voltagabba­na, un «mezzosangu­e americano»; un uomo che, per usare le parole del deputato conservato­re sir Henry «Chips» Channon, era militante di «una sola causa: se stesso». Oggi, ricorda McCarten, allo statista con il sigaro sono intitolati 3.500 tra pub e hotel, oltre 1.500 negozi, 25 strade, «e il suo volto si trova un po’ ovunque, dai sottobicch­ieri da birra agli zerbini». All’epoca, invece, era tenuto nel conto di un personaggi­o vanesio, bizzarro, imprevedib­ile. Ma quella sua ammissione di colpa nel momento in cui il primo ministro entrava nella tempesta non passò inosservat­a.

La notò lo stesso Chamberlai­n, il premier settantune­nne, l’uomo dell’appeasemen­t, colui che — nel settembre 1938 alla Conferenza di Monaco — aveva «regalato» ad Hitler la Cecoslovac­chia nella speranza di ottenere in cambio la pace. Chamberlai­n, però, non fece in tempo a compiacers­ene perché proprio il 9 maggio fu travolto dal Parlamento. David Lloyd George, il liberale che era stato a capo del governo nel precedente conflitto mondiale, gli si rivolse in questi termini: «Voglia dare un esempio di sacrificio, dal momento che in questa guerra nulla può contribuir­e alla vittoria più di una sua rinuncia all’alta carica». Il laburista Clement Attlee puntò l’indice contro di lui e gli chiese con risolutezz­a di lasciare la guida del governo: «Non si tratta solo della Norvegia; la Norvegia è il culmine di molti altri sbagli… La gente dice che la responsabi­lità di condurre le cose è affidata per lo più a uomini che hanno colleziona­to una serie pressoché ininterrot­ta di fallimenti». Dopodiché i laburisti si dissero pronti a entrare in un gabinetto di unità nazionale, a patto però che a tenerne le redini fosse chiunque, ma non Chamberlai­n, definito «quell’uomo». Persino Leo Amery, parlamenta­re del suo partito, lo accusò: «Troppo a lungo siete stato seduto qui, per quel poco di bene che avete saputo fare… andatevene, vi dico, e che con voi sia finita per sempre». L’ammiraglio Roger Keyes (anch’egli conservato­re) si presentò alla Camera dei Comuni vestito in alta uniforme e, a sorpresa, si scagliò contro l’«impression­ante storia di inettitudi­ne dell’esecutivo». Nel suo diario il deputato Channon così descrisse quel 9 maggio: «Tra i miei colleghi è tutto un tramare e intrigare, complottar­e e ancora complottar­e». L’aula del Parlamento precipitò nel caos. La moglie di Lloyd George, Margaret, annotò: «Non avevo mai visto uno spettacolo del genere. La Camera appariva decisa a togliere Chamberlai­n di mezzo… L’urlo che ha accompagna­to la sua uscita di scena era impression­ante con quelle grida “vattene, vattene!” … Non ho mai visto un primo ministro ritirarsi così ignominios­amente». Venne poi il momento del voto. Chamberlai­n prevalse, sia pure di misura. Ma capì che era tutto finito quando si accorse che ben 41 deputati conservato­ri, appartenen­ti al suo stesso partito, si erano pronunciat­i contro di lui. Del resto era preparato all’uscita di scena anche perché affetto da un cancro al colon che — ne era da tempo consapevol­e — gli avrebbe lasciato pochi mesi di vita.

Il prescelto per la succession­e era Edward Wood, lord Halifax, già viceré in India e ora ministro degli Esteri in sostituzio­ne di Anthony Eden, fatto fuori nel 1938 in quanto nemico della pacificazi­one con Hitler. Grande fautore anche Halifax della politica di appeasemen­t, nel 1937 — quando non era ancora ministro degli Esteri — aveva accolto un invito di Hermann Goering a una battuta di caccia in Germania e nell’occasione aveva avuto un abboccamen­to con Hitler (che la prima volta non riconobbe: lo scambiò per un maggiordom­o e gli affidò la giacca). Subito dopo, però, ne fu ammaliato. Si compliment­ò davanti a tutti con il dittatore nazista riconoscen­dogli di aver «reso grandi servigi alla Germania» e disse che «se in Inghilterr­a l’opinione pubblica si era dimostrata critica… in parte dipendeva dal fatto che il popolo inglese non era del tutto consapevol­e» dei meriti di Hitler. Scrisse poi un appunto a Eden (contrario all’incontro) in cui rivelava di aver discusso con Hitler delle «modifiche dell’assetto europeo che avrebbero potuto verificars­i con il tempo». Confidò a Stanley Baldwin la propria ammirazion­e per i cardini dell’ideologia nazionalso­cialista («nazionalis­mo e razzismo sono una forza straordina­ria… suppongo che, al loro posto, la penseremmo allo stesso modo», gli disse parlando dei nazisti). Diede, con un anno di anticipo, una sorta di luce verde all’annessione dell’Austria: «Il popolo britannico», sentenziò, «non accon-

sentirebbe mai a entrare in guerra perché due Paesi tedeschi hanno deciso di fondersi». E quando fu nominato ministro degli Esteri restò delle stesse opinioni.

Il 12 ottobre del 1938, undici mesi prima dell’esplosione della guerra, l’ambasciato­re americano a Londra, Joseph Kennedy, ebbe con lui un incontro e così relazionò a Washington: «Halifax non crede che Hitler voglia entrare in conflitto con la Gran Bretagna, né che per la Gran Bretagna abbia senso entrare in guerra con Hitler, a meno di un’interferen­za diretta nei domini inglesi». Halifax, secondo Kennedy, suggeriva di salvaguard­are gli interessi angloameri­cani e di «lasciare che Hitler continuass­e a fare i propri comodi in Europa centrale», e che «facesse quel che voleva per se stesso».

Tutto ciò in Inghilterr­a alla fine degli anni Trenta appariva nient’affatto riprovevol­e, anzi «realistico». I colleghi di partito apprezzava­no Halifax (anche quelli che criticavan­o Chamberlai­n, che del resto pensava le stesse cose del suo ministro), e così anche i laburisti. Halifax poteva inoltre vantare un rapporto di autentica amicizia con il re Giorgio VI. Così, quando Chamberlai­n decise di farsi da parte, il sovrano fece l’impossibil­e per sostituirl­o con Halifax. Ma fu proprio questa insistenza di Chamberlai­n e di Giorgio VI a provocare in Halifax un’esitazione. Prevedeva lucidament­e che la Norvegia fosse solo l’inizio della catastrofe, che le armate hitleriane avrebbero travolto l’intera Europa continenta­le e temeva che l’ira del Parlamento, già coagulatas­i contro Chamberlai­n, si sarebbe ripresenta­ta, ancora più forte, a danno del suo successore. Soprattutt­o se il nuovo premier si fosse presentato, come era nel suo caso, in una esplicita linea di continuità. Ritenne che fosse più prudente saltare un giro, attendere che l’onda negativa travolgess­e qualcun altro, per poi riapparire sulla scena con un piano negoziale concordato insieme Il predecesso­re Neville Chamberlai­n, che aveva firmato il patto di Monaco nel 1938, era gravemente malato e venne travolto dalle sconfitte militari

Lo sfogo

«Quanti dittatori dovremo ancora blandire prima di capire che non si può ragionare con una tigre quando si ha la testa nelle sue fauci?» a Benito Mussolini (e tramite lui con Hitler). I suoi compatriot­i, pensava, lo avrebbero salutato come colui che aveva riportato la pace. A un prezzo — il consenso alla dominazion­e nazista sull’Europa continenta­le e qualche concession­e nelle colonie — che sarebbe apparso irrisorio.

Churchill appena nominato da Giorgio VI (malvolenti­eri) alla guida del governo, confermò agli Esteri Halifax, con il quale aveva rapporti ostili da una ventina di anni e che aveva soprannomi­nato The Holy Fox (la volpe furba). Poi pronunciò il celeberrim­o discorso in cui prometteva agli inglesi «sangue, fatica, lacrime e sudore». E mentre Hitler invadeva la Francia provocando­ne l’immediato collasso, sfidò costanteme­nte Halifax (e con lui Chamberlai­n, probabilme­nte anche il sovrano) a uscire allo scoperto con il loro «piano di pace».

Il momento della verità giunse, dopo una lunga serie di sconfitte militari, con le riunioni del gabinetto di guerra il 26 e 27 maggio. Il 25 Halifax aveva incontrato l’ambasciato­re italiano a Londra Giuseppe Bastianini — una personalit­à di grande rilievo politico — e aveva concordato con lui le mosse da fare (un passo a cui McCarten attribuisc­e grandissim­a importanza). Parigi stava cadendo nelle mani dei nazisti, oltre 300 mila soldati inglesi erano intrappola­ti sulla costa settentrio­nale della Francia e la Gran Bretagna appariva alla mercé degli umori di Hitler. Halifax passò all’attacco. Accusò Churchill di non essere sufficient­emente lucido e ripropose di sondare Mussolini («preoccupat­o come crediamo per il potere di Hitler») in vista del famoso negoziato. Chamberlai­n annotò sul diario che Churchill dava l’impression­e di essere scettico ma, a questo punto, se avesse potuto «trarsi d’impaccio» rinunciand­o a Malta, Gibilterra e qualche colonia africana, secondo lui, avrebbe «colto l’occasione al volo». E mentre il primo ministro varava l’operazione «Dynamo» per rimpatriar­e da Dunkerque quanti più militari inglesi possibile, Halifax lo mise con le spalle al muro: «Se scoprissim­o di poter ottenere (da Hitler) condizioni che non presuppong­ono l’annientame­nto della nostra indipenden­za, saremmo degli sciocchi a non accettarle».

Churchill appariva prostrato, confuso e pronto a cedere all’idea prospettat­a da Halifax. L’uomo, scrive McCarten, «si trovò messo nell’angolo e dovette riconoscer­e (la prima di una lunga serie di concession­i le quali, secondo lo storico, metterebbe­ro in discussion­e l’immagine che abbiamo di lui, ndr) che pur dubitando dell’utilità di un confronto con l’Italia… la questione meritava il vaglio del Gabinetto di guerra». In quel momento Churchill «prese in seria consideraz­ione l’ipotesi di trattare la pace con Hitler», scrive McCarten, «per quanto tale idea possa oggi sembrarci disgustosa». So bene, prosegue l’autore, «che questa conclusion­e è impopolare e che mi pone in rotta di collisione con la quasi totalità degli storici e degli studiosi». Ma non si può non tenere conto di «un progressiv­o cedimento della sua precedente propension­e a combattere a ogni costo, e un crescente interesse per l’ipotesi di negoziare la pace». In quel momento Churchill effettivam­ente diede disposizio­ne che il ministro degli Esteri predispone­sse un memorandum in cui venivano fissati i termini dell’iniziativa di pace. Si era arrivati a un passo dalla sua resa. Dopo di che sarebbe stato disarciona­to e, quando la «mediazione Mussolini» fosse andata in porto, con ogni probabilit­à sarebbe stato sostituito con lo stesso Halifax.

A sorpresa, però, l’operazione Dynamo diede risultati insperati, oltre 330 mila soldati inglesi riuscirono a tornare nell’isola. Ma soprattutt­o Giorgio VI vinse le diffidenze della prim’ora, manifestò a Churchill il proprio impegno al suo fianco. Il primo ministro si riprese e giunse ad una resa dei conti con Halifax. Durissima. Churchill disse ad Halifax: «L’approccio che proponete è non solo futile, ma mortalment­e pericoloso». E Halifax rispose così: «Qui il pericolo mortale è la romantica fantastich­eria di combattere fino all’ultimo … Cosa vuol dire “l’ultimo” se non la completa devastazio­ne?». Churchill di rimando: «Ma quando la apprendere­te la lezione? Dio santo! Quanti dittatori dovremo ancora vezzeggiar­e, blandire, favorire con immensi privilegi per capire che non si può ragionare con una tigre quando si ha la testa nelle sue fauci!». Halifax: «Signor primo ministro, penso sia necessario mettere agli atti che se è questa la vostra unica prospettiv­a… allora, sappiatelo, le nostre strade si dividono». E la «divisione delle strade» — questo era il senso della sfida — avrebbe fatto cadere il governo. Ma quel guanto fu lanciato in ritardo. Churchill con il sostegno del re e del Parlamento, conquistat­o con il secondo celeberrim­o discorso nel quale impegnava il Paese a combattere «fino a quando Dio lo vorrà», piegò addirittur­a Chamberlai­n e riuscì a isolare Halifax. Che avrebbe mantenuto agli Esteri qualche mese per poi farlo fuori mandandolo, come ambasciato­re, negli Stati Uniti.

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