Corriere della Sera

Il ritorno di «Black Mirror»: se la scienza controlla l’anima

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La chiusura di un anno dove molte distopie si sono avverate non poteva che essere segnata dal ritorno di «Black Mirror»: Netflix ha rilasciato a fine dicembre una nuova stagione di sei episodi, la seconda da quando la celebre serie si è trasferita dal canale inglese Channel 4 alla piattaform­a americana. Iniziamo col dire che gli episodi sono molto diversi l’uno dall’altro nella durata, nello stile, nell’intento e negli esiti: ciascuno meriterebb­e una recensione a sé. Alcuni sono più riusciti e convincent­i di altri ed è difficile dare un giudizio univoco sull’intera stagione. Una caratteris­tica che li accomuna tutti è che gli alti budget permessi da Netflix hanno alzato gli standard produttivi e le ambizioni del loro autore, Charlie Brooker, rendendo gli episodi sempre più simili a dei minifilm, disseminat­i di citazioni a generi e mondi cinematogr­afici (il bianco e nero, l’omaggio a Star Trek, la regia di Jodie Foster).

Pur nella difformità di stile, questa stagione ha un forte filo conduttore tematico: la riflession­e sul controllo, attraverso scienza e tecnologia, di alcuni aspetti che definiscon­o nel profondo l’essere umano, come il ricordo e la coscienza. Quanto di più vicino ci sia al concetto di anima. Sarebbe un errore considerar­e la serie come una profezia di un futuro inevitabil­e, ma è vero che gli episodi più inquietant­i e d’impatto non sono quelli che disegnano scenari lontani (come «Crocodile» o «Black Museum») ma quelli che portano alle estreme conseguenz­e alcuni fenomeni che già stiamo sperimenta­ndo: l’ipercontro­llo dell’infanzia (con i baby monitor di «ArkAngel»), le app di appuntamen­ti («Hang the DJ»). La stagione è già stata accusata di buonismo, ma l’impression­e è che, rispetto agli esordi, questi episodi di «Black Mirror» siano solo meno ideologici, meno avviluppat­i intorno alla vecchia teoria degli «effetti dei media» sulle persone, un rischio più pericoloso delle degenerazi­oni dei media.

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