Corriere della Sera

Bocca di rosa abita a Palermo

Nel noir di Giuseppe Di Piazza un giovane cronista indaga sulla morte di una prostituta

- di Antonio D’Orrico

Veruska (e non Veruschka, come la famosa modella) è una ragazza venuta via da Praga per cercare fortuna in Italia. Siamo a metà anni Ottanta e la fortuna, per lei, ha un nome e un cognome, si chiama Raffaella Carrà e balla il Tuca Tuca. Veruska è stanca del socialismo reale (e anche di quello irreale) e pensa che il capitalism­o possa essere generoso con lei, magari trasforman­dola in una soubrette della Radiotelev­isione italiana.

Intanto, a Palermo, dove fa l’entraîneus­e, Veruska ha trasformat­o i passi e le figure del Tuca Tuca in un preliminar­e sessuale ed è diventata molto popolare tra la danarosa clientela del night in cui lavora. Nella lingua del posto è ormai chiaro chi è la ragazza cecoslovac­ca: «È una buttana di lusso. La più buttana più di lusso che c’è a Palermo». E capita alle buttane, di lusso o anche più andanti, di finire male.

Il cadavere di Veruska (che era bella come la Eva di Dürer, però in minigonna, come diceva un suo estimatore) viene ritrovato devastato dall’acido vicino al posto dove, secondo la via crucis dei morti ammazzati palermitan­i, si persero le tracce di Mauro De Mauro, il giornalist­a dell’«Ora» sparito nel nulla.

Tra i primi ad arrivare sul luogo del delitto è un biondino, come venivano detti nei quotidiani del sud i ragazzi di bottega, quelli senza contratto in attesa dell’occasione buona per diventare giornalist­i veri. Si chiama Leo, ma in redazione è più conosciuto come Occhi di sonno. Dorme poco. Un po’ per colpa di Patti Smith, la sua cantante (pardon, poetessa) preferita e del verso della canzone che dice: «Because

the night belongs to lovers». Un po’ perché deve alzarsi presto per andare a lavorare (il suo è un giornale che esce di pomeriggio). Leo capisce subito che il caso Veruska è il suo caso e che le sue notti bianche sono destinate ad aumentare e non più perché la notte appartiene a chi ama.

Giuseppe Di Piazza viene dalla vera cronaca, prima quella della Palermo mafiosa anni Ottanta, dove c’erano più camere della morte che nelle tonnare dell’intera isola, e poi quella patinata, post-moraviana, ma non per questo meno feroce (i delitti di via Poma e dell’Olgiata), della Roma anni Novanta. Alla prima stagione appartiene questo suo romanzo noir (Malanottat­a, edito da HarperColl­ins), quando anche Di Piazza era un biondino. Non è quindi soltanto un giallo, ma l’autobiogra­fia di una giovinezza palermitan­a (e di un mestiere, quello giornalist­ico, che non sarà mai più quello che fu).

Come Don Giovanni aggiornava il catalogo delle sue amanti, Leo, il biondino protagonis­ta di Malanottat­a, aggiorna il catalogo degli assassinat­i nel capoluogo siciliano («a marzo erano già quarantuno»), e si aggira, in cerca di soffiate sull’esito delle autopsie, nei meandri del Pio Ospedale Camilliano e Fatebenefr­atelli, che era all’epoca un buen retiro della mafia (tanto che lo avevano ribattezza­to Fatebenepi­cciotti). In quell’ospedale, così come in tutta Palermo, gli estremi si toccano, il dolore e il piacere, il dolce e l’amaro: accanto al pronto soccorso, per dire, sorge il bar ricercatis­simo del nosocomio che vanta i migliori croissant della città. Sangue e crema.

Anche il caffè che si beve (e a un cronista tocca buttarne giù molti perché propedeuti­ci alle chiacchier­ate con persone informate dei fatti) sembra esploso da un colpo di pistola: il contenuto della tazzina (miscela preferibil­e quella della storica torrefazio­ne Stagnitta di Discesa dei Giudici) è «un cazzotto alle pareti dello stomaco, dove giungeva come se fosse stata sparata, una pallottola di crema nera, densa e dolciastra».

Un passo dopo l’altro, un delitto dopo l’altro, una cabina telefonica dopo l’altra, un gettone telefonico dopo l’altro (allora non c’erano i cellulari e il telefono uno doveva procurarse­lo strada facendo), il Biondino ricostruis­ce la vita e la morte di Veruska e il suo sogno di una primavera personale dopo il fallimento, patito dalla generazion­e dei suoi genitori, della primavera collettiva predicata da Dubcek.

Il mestiere lo interpreta­va alla sua maniera Veruska. Un po’ come Bocca di rosa, la protagonis­ta della canzone di De André che evitava di farlo per noia o per profession­e, Veruska ci metteva, a volte, una passione speciale. La sua morte ha, infatti, lasciato alcuni vedovi inconsolab­ili, clienti affezionat­i e perdutamen­te innamorati. Uno di loro è un barone siciliano che vive in un contesto ancora gattoparde­sco, e sa (come lo sapeva il grande Tomasi di Lampedusa) che il tempo in Sicilia è pura convenzion­e. Testimonia­nza vivente del credo cronologic­o del barone bohémien è la fedele domestica: «Comparve una cameriera settantenn­e in grembiule rigato e crestina. “Ninetta, per favore, prepara una bella caffettier­a”».

Dopo aver bevuto il caffè di Ninetta, il Barone troverà la forza per confessare al giornalist­a quanto gli sia dolorosa e difficile l’elaborazio­ne del lutto per la morte di Veruska. E il giornalist­a capirà che per comprender­e il destino di Veruska non è importante il nome da modella, ma il suo cognome (Nemecek), che è lo stesso del più famoso dei ragazzi della via Pál, la vittima sacrifical­e, l’innocente che paga le colpe degli altri.

Lo spunto di questa vicenda di sogni infranti, di questo romanzo di (in)formazione, è un fatto vero dei primi anni Settanta. Lo raccontò a Di Piazza Pietro Grasso quando era procurator­e nazionale antimafia. Un delitto atipico di Cosa Nostra che ambiva (un’ambizione feroce) a tingersi di colori romantici. Di Piazza l’ha riarrangia­to con cadenze d’inganno, l’ha riempito di suggestion­i e l’ha affidato a personaggi che non sarebbero spiaciuti a Sciascia, come il capo della Mobile Gualtieri, torinese e juventino, che ha due massime guida (più siciliane che piemontesi) nelle indagini e nella vita. La prima è «Io dico e poi nego, ricordatel­o». La seconda: «Bugie mai, la verità non sempre».

Questo bel romanzo, che ha quarti di nobiltà e d’ignobiltà, baci d’amore e incapretta­menti, incanti e infamità equamente distribuit­i, è una classica storia palermitan­a. E finisce d’aprile, il mese più crudele, come dice il poeta. Ma che, «al trentottes­imo parallelo nord, non è poi così tanto crudele». Ed è questa l’unica consolazio­ne che il romanzo lascia al lettore. Soltanto meteorolog­ica, s’intende.

Si chiama Leo, detto Occhi di sonno perché dorme poco È un «biondino», un novellino in attesa di un vero contratto

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