Corriere della Sera

Quanto cresce (davvero) l’Italia

Se l’obiettivo è la ripresa, è stato centrato; se è una convergenz­a con il resto d’Europa, ancora in gran parte sfugge. E si allontana

- di Federico Fubini

Ma l’Italia quanto cresce davvero? La ripresa c’è, ma se il confronto è con il resto d’Europa resta ancora molto da fare.

Il numero degli occupati ai massimi da quarant’anni. Il ritmo di crescita più rapido del decennio. Il principale indice di Borsa di Milano lievitato quasi del 19% in dodici mesi e rendimenti dei titoli di Stato fra i più bassi del dopoguerra, mentre il fatturato dell’export nel 2017 aumenta più che in Francia o in Germania. Accanto a tutto questo, dai partiti proposte pensate per un elettorato psicologic­amente ancora in recessione: vi leviamo le tasse sulle crocchette per gatti

I redditi Dal 2009 l’Italia non vedeva tassi di crescita del reddito nazionale attorno all’1,5% L’export Dal 2010 al 2016 Spagna e Portogallo hanno fatto meglio dell’Italia sull’export

o la tivù di Stato; vi ridiamo la pensione nel pieno delle forze con un assegno intatto; vi garantiamo un sussidio universale o un salario minimo del 15% sopra ai livelli tedeschi.

Ma l’Italia come sta veramente? Quando si guardano i mercati finanziari, o l’economia, il lavoro e gli investimen­ti, o l’industria del credito, oppure la finanza pubblica, la risposta è sempre la stessa: ambivalent­e. Se l’obiettivo era la ripresa, è stato ampiamente centrato; se era una convergenz­a con il resto d’Europa, allora in gran parte sfugge e si allontana anche mentre splende il sole.

Era dal 2009 che l’Italia non vedeva tassi di crescita del reddito nazionale attorno all’1,5%, al punto che ormai un ritmo simile sembra un record; eppure nel 2017 sarà ancora una volta il più basso della zona euro, mentre il ritardo sul resto dell’area molto probabilme­nte è destinato a restare lo stesso: quasi un punto in meno, come nel 2016. Quanto al lavoro, un milione di posti sono stati aggiunti da quando la ripresa è arrivata in Italia all’inizio del 2014; nel frattempo però il tasso di occupazion­e - la quota di coloro che lavorano in proporzion­e a coloro che potrebbero farlo - resta nettamente la più bassa dell’Unione europea dopo la Grecia, staccata anche dalla Spagna. Lo stesso vale poi per i tassi di attività, che includono chi non lavora ma almeno studia: migliorati quasi del 2% in due anni, ma i più bassi in Europa (Grecia inclusa).

Si presta a una doppia lettura anche il volto migliore dell’economia nazionale, l’export. Nel 2017 le vendite all’estero sono salite di circa l’8%, più del commercio mondiale e più che in Francia (5%) e Germania 88%). Una seconda occhiata rivela però che dal 2010 al 2016 la crescita cumulata di fatturato del «made in Italy» (+24%) era rimasta indietro non sono sulla Francia (+ 25%) e la Germania (33%), ma era stata staccata da Spagna (34%) e Portogallo (38%). L’Italia cerca dunque di recuperare terreno, non accumulare vantaggio: impresa resa più complessa dal fatto che il numero di imprese esportatri­ci resta quasi fermo, non si espande. Sempre la stessa élite di produttori diventa più efficiente, allargando il divario con tutti gli altri. Una delle ragioni è forse in una quota di laureati nel Paese salita dal 12% (2007) a quasi il 16%, pur restando nettamente la più bassa dell’area euro; l’Île-de-France. la regione di Parigi, ha una po’ ma, al 14% del portafogli­o prestiti, restano (in proporzion­e) fra i più alti del mondo, mentre la capacità del sistema bancario di coprire queste perdite generando reddito è fra le più basse.

I migliorame­nti dell’Italia innegabili - giustifica­no la corsa degli indici di Borsa, ma non va letta come un assegno in bianco sul futuro: i prezzi delle azioni in rapporto agli utili restano due punti e mezzo sotto le medie europee. Né sorprende che l’incertezza politica renda lo spread dei titoli di Stato di Roma più alto anche rispetto a Lisbona. Del resto anche il debito pubblico si sta stabilizza­ndo ma, secondo Bruxelles, l’Italia resta fra i rari casi in cui anche nel 2017 sale un po’. Non è insomma il caso di battersi il petto, né di gonfiarlo. Di sicuro il risveglio italiano deve alla ripresa europea più di quanto tanti politici ammettano. Preferisco­no le promesse elettorali. Eppure il problema di queste ultime non è che saranno attuate, perché sono troppo strabilian­ti. È piuttosto che la politica così perde la legittimit­à di proporre misure più realistich­e e meno seducenti dopo, quando magari non basterà più l’Europa a sospingerc­i. densità quasi doppia di giovani laureati rispetto alla Lombardia.

Una seconda ragione più transitori­a della mancata crescita di scala di tante imprese è negli investimen­ti che in Italia finalmente salgono, ma restano scarsi: siamo al 17,2% del prodotto lordo nel 2017, mezzo punto sopra ai minimi del 2014 ma ancora ai livelli degli anni orribili 2011-2012; terz’ultimi dopo Grecia e Portogallo. Probabilme­nte dipende anche dal guado che il sistema bancario non ha ancora varcato del tutto: i crediti in default nei bilanci sono scesi un bel

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