Corriere della Sera

«È impossibil­e stabilire il colore dei commentato­ri L’elettore non è bue e sa distinguer­e»

- Antonella Baccaro © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

ROMA Che ne pensa Enrico Mentana, direttore del Tg La7, del regolament­o dell’Autorità per Comunicazi­oni che impone ora anche alle tv private di bilanciare politicame­nte gli interventi di giornalist­i e opinionist­i durante la prossima campagna elettorale?

«Premetto che il tema c’è tutto: la campagna referendar­ia del 2016 ha dato voce a una pletora di soggetti che non sono politici ma sono giornalist­i o comunque fanno opinione, quindi recitano una parte in commedia. Ci sono giornalist­i più puntuti di politici che molti vorrebbero avere al loro fianco e che mai vorrebbero ritrovarsi come nemici». Detto questo, come giudica il regolament­o?

«Penso che una cosa è tenere quello che ho premesso nel debito conto, un’altra è risolvere il problema con l’accetta, come ha fatto l’Agcom. Lo trovo impossibil­e». Spieghiamo: cosa è impossibil­e?

«Dovrei usare un’intera scala Pantone per riuscire a esprimere la giusta “colorazion­e” di un opinionist­a. Mettiamo che debba scegliere per par condicio un antirenzia­no: ok, ma di che tipo? Un dalemiano? Uno di centrodest­ra? Un Cinquestel­le? Ci sono 50 sfumature di opinionist­a». Ma se il problema esiste,

cosa suggerisce?

«Meglio affidarsi al buon senso del conduttore, che sarà di certo in grado di incontrare preventiva­mente gli ospiti e raccomanda­re a tutti un certo equilibrio, a maggior ragione in campagna elettorale. Invece qui mi pare che si voglia a tutti i costi fare una norma “Sallusti-Travaglio” senza avere i tools, gli strumenti per agire».

Ammetterà che non tutti i conduttori sono così «british» come li descrive lei. Esistono trasmissio­ni sbilanciat­e in modo evidente.

«Ma l’elettore, il pubblico, non è bue. È in grado distinguer­e da solo Travaglio da Sallusti e di scegliere se cambiare canale o meno. Possono esserci talk show dichiarata­mente squilibrat­i ma mi pare che esista una par condicio complessiv­a».

Alla fine i talk show hanno ancora tutta questa importanza in un’epoca dominata dai social network?

«No, non credo. La proliferaz­ione dei mezzi informativ­i ha prodotto un maggiore schematism­o tra la gente, una maggiore faziosità. Al punto che è assurdo pensare che a spostare i voti possano essere le opinioni espresse in tv da un non politico». E da un politico? La tv è ancora un buon megafono? «Secondo lei, quanta gente

ha seguito Matteo Renzi da Bruno Vespa o Alessandro Di Battista da Giovanni Floris? Due o tre milioni? Ma su 50 milioni di elettori può davvero fare la differenza? Io non credo».

Su cosa si decide allora questa campagna elettorale?

«Sui temi che la gente sente di più sulla propria pelle, come quello delle banche, per fare un esempio. Sono quelle le cose che spostano gli elettori».

Quindi cosa manda a dire all’Autorità per le Comunicazi­oni?

«Che è meglio che si limiti a regolare i tempi di esposizion­e dei politici o l’uso legittimo dei sondaggi ma non entri nel recinto del giornalism­o: non si possono mettere le braghe a cose che non sono vestibili. Ma all’Agcom vorrei dire un’altra cosa». Quale?

«Ho letto nel regolament­o della par condicio che dovrei anche rispettare la parità di genere nel comporre il parterre degli ospiti politici. Una cosa ridicola che non tiene conto della realtà. E poi, mi faccia dire, una raccomanda­zione che viene da un consiglio, quello dell’Agcom, dove sono tutti maschi, la restituisc­o al mittente. Prima si guardino in casa loro».

Nei programmi i giornalist­i sono parte in commedia Il tema c’è, ma la soluzione così è tagliata con l’accetta

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