«È impossibile stabilire il colore dei commentatori L’elettore non è bue e sa distinguere»
ROMA Che ne pensa Enrico Mentana, direttore del Tg La7, del regolamento dell’Autorità per Comunicazioni che impone ora anche alle tv private di bilanciare politicamente gli interventi di giornalisti e opinionisti durante la prossima campagna elettorale?
«Premetto che il tema c’è tutto: la campagna referendaria del 2016 ha dato voce a una pletora di soggetti che non sono politici ma sono giornalisti o comunque fanno opinione, quindi recitano una parte in commedia. Ci sono giornalisti più puntuti di politici che molti vorrebbero avere al loro fianco e che mai vorrebbero ritrovarsi come nemici». Detto questo, come giudica il regolamento?
«Penso che una cosa è tenere quello che ho premesso nel debito conto, un’altra è risolvere il problema con l’accetta, come ha fatto l’Agcom. Lo trovo impossibile». Spieghiamo: cosa è impossibile?
«Dovrei usare un’intera scala Pantone per riuscire a esprimere la giusta “colorazione” di un opinionista. Mettiamo che debba scegliere per par condicio un antirenziano: ok, ma di che tipo? Un dalemiano? Uno di centrodestra? Un Cinquestelle? Ci sono 50 sfumature di opinionista». Ma se il problema esiste,
cosa suggerisce?
«Meglio affidarsi al buon senso del conduttore, che sarà di certo in grado di incontrare preventivamente gli ospiti e raccomandare a tutti un certo equilibrio, a maggior ragione in campagna elettorale. Invece qui mi pare che si voglia a tutti i costi fare una norma “Sallusti-Travaglio” senza avere i tools, gli strumenti per agire».
Ammetterà che non tutti i conduttori sono così «british» come li descrive lei. Esistono trasmissioni sbilanciate in modo evidente.
«Ma l’elettore, il pubblico, non è bue. È in grado distinguere da solo Travaglio da Sallusti e di scegliere se cambiare canale o meno. Possono esserci talk show dichiaratamente squilibrati ma mi pare che esista una par condicio complessiva».
Alla fine i talk show hanno ancora tutta questa importanza in un’epoca dominata dai social network?
«No, non credo. La proliferazione dei mezzi informativi ha prodotto un maggiore schematismo tra la gente, una maggiore faziosità. Al punto che è assurdo pensare che a spostare i voti possano essere le opinioni espresse in tv da un non politico». E da un politico? La tv è ancora un buon megafono? «Secondo lei, quanta gente
ha seguito Matteo Renzi da Bruno Vespa o Alessandro Di Battista da Giovanni Floris? Due o tre milioni? Ma su 50 milioni di elettori può davvero fare la differenza? Io non credo».
Su cosa si decide allora questa campagna elettorale?
«Sui temi che la gente sente di più sulla propria pelle, come quello delle banche, per fare un esempio. Sono quelle le cose che spostano gli elettori».
Quindi cosa manda a dire all’Autorità per le Comunicazioni?
«Che è meglio che si limiti a regolare i tempi di esposizione dei politici o l’uso legittimo dei sondaggi ma non entri nel recinto del giornalismo: non si possono mettere le braghe a cose che non sono vestibili. Ma all’Agcom vorrei dire un’altra cosa». Quale?
«Ho letto nel regolamento della par condicio che dovrei anche rispettare la parità di genere nel comporre il parterre degli ospiti politici. Una cosa ridicola che non tiene conto della realtà. E poi, mi faccia dire, una raccomandazione che viene da un consiglio, quello dell’Agcom, dove sono tutti maschi, la restituisco al mittente. Prima si guardino in casa loro».
Nei programmi i giornalisti sono parte in commedia Il tema c’è, ma la soluzione così è tagliata con l’accetta