Corriere della Sera

Il clochard bruciato, accusati due minori «Era uno scherzo»

L’inchiesta a Verona. Hanno 13 e 17 anni

- Andrea Priante

Doveva essere solo uno scherzo, per tormentare ancora quel clochard che da qualche tempo avevano preso di mira. Due amici: uno di tredici, l’altro di diciassett­e anni. E quell’uomo, che a Zevio — una dozzina di chilometri da Verona — avevano soprannomi­nato «Il Baffo». Si chiamava Ahmed Fdil, aveva 64 anni, era arrivato dal Marocco nel 1990 per lavorare come operaio specializz­ato in una fabbrica della zona. Poi la crisi, gli esuberi, ed era finito a vivere per strada. Dormiva in una Fiat Bravo abbandonat­a che, il 13 dicembre intorno alle 20, è andata a fuoco.

Non è riuscito a liberarsi: spente le fiamme, è rimasto il suo corpo in parte riverso all’esterno, all’altezza della portiera anteriore destra. Inizialmen­te si pensava a una fatalità: il senzatetto che si addormenta con la sigaretta tra le mani, magari dopo aver bevuto troppo, il mozzicone che cade sulle coperte e i tessuti che prendono fuoco. Ma quasi subito in paese hanno cominciato a circolare strane voci. «C’erano dei ragazzini che lo perseguita­vano, a volte gli lanciavano contro dei petardi», racconta una donna che abita a due passi dal luogo in cui l’auto è bruciata. «Anche quella sera ho sentito un botto, e quando mi sono affacciata alla finestra ho scorto le fiamme che salivano».

Ma a pesare è soprattutt­o il racconto dell’uomo che per primo ha tentato di estrarre Fdil dalle lamiere. Si chiama Gino Capo e non riesce a darsi pace: «L’ho detto subito ai carabinier­i, non poteva essere stata una sigaretta. Mia moglie quel giorno ha visto i soliti ragazzini girare in zona, e prima di vedere le fiamme ha sentito uno scoppio». Un petardo, forse.

I carabinier­i non ci hanno messo molto a risalire ai due amici di 13 e 17 anni, entrambi con genitori stranieri. «Famiglie modeste ma ben integrate» le descrivono. Il più piccolo, che vista l’età non è imputabile, è stato sentito dal magistrato che indaga sulla morte del marocchino. Avrebbe raccontato di quell’appuntamen­to nella piazzetta e dei dubbi su come passare il tempo. Forse anche della noia, perché di martedì pomeriggio in un paesino di provincia non c’è granché da fare. Poi l’idea di tormentare il clochard che vive nell’auto. «Abbiamo preso della carta dal rotolo che c’era in una pizzeria e ce la siamo divisa».

Di corsa fino alla vettura. Il più grande avrebbe dato fuoco al primo pezzo di carta per poi lanciarlo nell’abitacolo, attraverso il finestrino. «Io ci ho provato ma mi si è sciolto in mano, non so se sia entrato oppure no». Infine la fuga, prima che l’auto prendesse fuoco. I due sono indagati. Ma la «confession­e» è al vaglio del tribunale per i minorenni di Venezia e viene presa con molta cautela dagli investigat­ori. Restano i dubbi, a cominciare dagli scoppi avvertiti dai testimoni. Qualunque sia la vera dinamica, per gli avvocati della famiglia della vittima si è trattato di un omicidio volontario. Ieri Salah Fdil, il nipote del clochard, ha voluto visitare il luogo della tragedia: «Forse lui desiderava morire proprio qui. Ma quel che è certo è che non meritava una fine del genere».

Preso di mira Verifiche sul racconto del più piccolo, che non è imputabile. I racconti: l’avevano preso di mira

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