Dai gioielli di Palazzo Ducale al Ritz Il ritorno dei «colpi» da cinema
I ladri puntano su audacia e sorpresa. Ritrovato il bottino di Parigi
A inizio anno il colpo al Palazzo Ducale di Venezia, svelto, silenzioso, sensazionale: i gioielli del Maharaja. Ora quello al Ritz di Parigi, non proprio delicatissimo visto il volto coperto dei banditi, le armi brandite e le vetrine spaccate. Ma sempre clamoroso per il grosso bersaglio scelto, un tempio del lusso apparentemente impenetrabile. Come impenetrabile sembrava essere la celebre gioielleria Cartier di Montecarlo, uno dei luoghi più sorvegliati del pianeta, ripulita a marzo dello scorso anno da tre uomini armati.
Succede dunque che ai tempi del mondo blindato e delle telecamere ovunque, tornino alla ribalta delle cronache le grandi rapine. Con gang e stili diversi ma tutte senza spargimenti di sangue. Obiettivi altissimi e bottini sontuosi: diamanti, rubini, preziosi orologi e anche quadri, come quelli trafugati dal museo di Castelvecchio a Verona un paio d’anni fa. In quel caso si trattava di tele di inestimabile valore, Tintoretto, Rubens, Mantegna, sparite senza colpo ferire una sera d’autunno grazie alla tattica più antica del mondo, la complicità di una guardia giurata. Sistema classico, efficace e in grado di dribblare ogni marchingegno di controllo. C’è scappata però una leggerezza, questa sì figlia dei tempi, un telefonino acceso che aveva agganciato due celle, quella veronese di Castelvecchio e quella bresciana che ha consentito di ritrovare l’auto della fuga. Conclusione: banda individuata e opere recuperate. Si trattava di un gruppo italo moldavo i cui mandanti sono ancora latitanti.
I cinque rapinatori del Ritz sono stati più grossolani e pasticcioni di loro. Secondo la polizia parigina, dopo aver fatto irruzione nel cinque stelle di Place Vendôme, tre di loro sono rimasti intrappolati all’interno dell’albergo con le borse piene di gioielli. Prima dell’arresto sono comunque riusciti a usare una finestra per allungare una parte del bottino (valore circa 4,5 milioni di euro) ai complici esterni. I quali sono scappati separatamente, uno in auto e l’altro in moto. Quest’ultimo ha perso una borsa con altri gioielli, recuperati poi tutti dalla polizia. Insomma, scene grottesche, buone per un film dei fratelli Coen. Eppure si tratta di rapinatori «professionisti». I tre arrestati, originari di Seine-Saint-Denis, zona nord di Parigi, hanno alle spalle un curriculum criminale di tutto rispetto. Rapine a mano armata, violenze, ricettazione. Le loro azioni si avvicinano alla modalità «Pink panthers», dal nome della banda di militari della ex Jugoslavia nota per i colpi spettacolari nelle gioiellerie di mezzo mondo, come quella del 2008 a un negozio di Dubai sfondato con una Limousine. A questo genere di crimini appartiene anche una delle più famose rapine commesse in Europa, quella dell’aeroporto di Bruxelles del 19 febbraio 2013. Le casse piene d’oro stavano per essere caricate nella pancia di un Fokker della Helvetic Airways per Zurigo, quando un’Audi station wagon e un furgone Mercedes piombarono nella pista sfondando le reti di protezione. Scesero otto uomini con armi dotate di laser. Furono 10 minuti di effetti speciali, tanta paura, 37 milioni di bottino ma zero spari. In questo filone si inseriscono alcuni storici colpi messi a segno fra Francia e Italia negli anni Settanta e Ottanta, per mano di vari gruppi: dal clan dei Marsigliesi alla banda di Felice Maniero alla gang di Vallanzasca. Memorabile quello del 14 novembre 1985 all’aeroporto Marco Polo di Venezia, dove erano in partenza per Francoforte tre quintali d’oro degli artigiani vicentini. Il commando di uomini armati guidati da Faccia d’angelo fu rapidissimo, prese i gioielli e andò a fonderli in lingotti nelle campagne del Brenta.
Diversamente è andata a Palazzo Ducale, dove gli sconosciuti nipotini di quella banda hanno agito in stile «Lupin», sempre senza scrupoli ma in modo più soft, ingegnoso e per certi versi romantico. Nessuna violenza, nessuna pistola. Per aprire la teca con i «Tesori del Moghul e dei Maharaja» hanno usato solo molta antica destrezza.