«I nostri incontri clandestini e la mia solitudine»
ara M., sono stato molto felice in questi ultimi anni. Qualche volta. Per esempio, quando sapevo che stavi arrivando. O quando uscivo a fare la spesa pensando che avrei cucinato per noi. Oppure in giro per Milano, di nascosto, insieme a te. Averti vicino — dimenticando per qualche ora che era solo una bolla, un amore tra due parentesi — mi faceva sentire al sicuro. Con te avevo le chiavi per qualunque paura. Vorrei avere registrato tutte le volte che sei venuta da me, come nella scena finale, quella dei baci, di «Nuovo Cinema Paradiso». Il momento esatto in cui aprivo la porta e dietro c’eri tu. Se mi chiedessero di descrivere la felicità lo farei così. Raccontando com’eri vestita quando arrivavi. Ti ho aperto col cappotto, in abiti sottili, d’estate, d’inverno o nella luce della primavera che entrava insieme a te dai vetri del portone. Sei arrivata con i tacchi, in scarpe da ginnastica, struccata o coi capelli appena fatti. Ma c’era una cosa sempre uguale: tu. Una donna. Un’amica. Un amore. Un’amante. Ripenso a quando eravamo felici, ma anche alle volte in cui mi sono sentito così, come adesso, solo. Durante le vacanze di ogni interminabile estate. Durante ogni Natale e Capodanno che ho passato senza di te, a pensarti da qualche parte mentre brindavi con il tuo completino rosso che qualcun altro, una volta arrivati a casa, avrebbe sfilato al posto mio. E questa solitudine, accumulatasi negli anni, è diventata una ruga. Perché l’amore ti invecchia, togliendoti tutto. Se è clandestino.