Corriere della Sera

Lina Sastri «Mio padre non c’era, si fece un’altra famiglia Il primo amore? Vivevamo in un sottoscala»

Se ne è andata di casa a 17 anni e ha debuttato in teatro con Eduardo De Filippo a 18: la prima battuta che mi scrisse era comica. Lo sono, ma soltanto quando mi sento a mio agio

- di Valerio Cappelli

Dici Lina Sastri e pensi a Napoli, con quei suoi occhi pieni di dolori e di riscatti, quel volto da antagonist­a che in scena si illumina e diventa bello finché vuole. Ha lavorato da ragazzina con i grandi maestri, Eduardo De Filippo, Peppino Patroni Griffi ( «gran signore, decadente, viscontian­o, riuscì a tirare fuori in me sensualità e mistero»). Canta le canzoni della sua terra d’origine nel teatro musicale con cui gira l’Italia… Ed è vittima anche lei, come la sua città, dei cliché; come se il destino di Napoli fosse il suo destino. «Beh, mi riconosco in questa cosa dei cliché. Io non ho la famiglia rumorosa, non cucino bene, non mangio il ragù. Però sono profondame­nte napoletana». In fondo Lina è l’attrice del «non», del ragionamen­to largo, da filosofo partenopeo, che quando arriva alla stretta finale inanella osservazio­ni critiche nel suo rosario laico che ha il colore della notte. Manca un elemento, nella sua natura così radicata nella napoletani­tà: l’aspetto ilare, la leggerezza che in lei si fa fatica a trovare. «Non credere, io ce l’ho, il problema è che viene fuori solo quando sono a mio agio, davanti a poche persone che mi conoscono bene e me lo dicono sempre: dovresti fare l’attrice comica. Fa parte di me, ma non è venuto fuori pubblicame­nte. Ironia forse non è la parola giusta, ma sono rimasta bambina. Mi viene più facile fare la tragica.Come faccio a nascondere i tratti, l’origine greca, spagnola? Eppure quando a 18 anni debuttai con Eduardo (Gli esami non

finiscono mai) la prima battuta che mi scrisse era comica. In scena il medico doveva visitarlo: dica 33. E lui muto. Dica 33, dica 33…E lui niente. Sbottai io, la comparsa: Lo dico io 33».

Nei vicoli

Le chiedi dell’adolescenz­a e ritorna la negazione, il «non»: «Io non l’ho vissuta, l’adolescenz­a. Sono nata in una piccola casa dei vicoli, in una condizione popolare che amo e mi ha dato tutto quello che ho». Un patrimonio affettivo che Pasqualina, detta Lina, ha costruito sulla sottrazion­e: «Mio padre non c’era mai, si fece un’altra famiglia in Brasile, ha avuto due figli, i miei fratellast­ri, da due donne diverse, una bianca e una nera. Mai visti, nemmeno in foto. Papà è morto lì». Ma suo padre fece in tempo ad applaudirl­a? «No», risponde secca. Sua madre l’ha amata, si era ammalata di Alzheimer e se n’è andata. Le ha dedicato uno scritto, La casa di Ninetta, spera di farne un film: c’è il suo pensiero sul passato, la famiglia, gli uomini, la musica… «I miei avevano la seconda elementare, la stessa età, belli, papà traditore, mamma gelosa». Quando ha lasciato Napoli? «A 17 anni, per il teatro. Non l’avevo mai visto in vita mia. Lo dico in Appunti di

viaggio, lo spettacolo dove recito, canto, ballo e racconto il mio vissuto artistico. Conobbi un ragazzo attore che fu il mio primo amore, mi fece scoprire Stanislavs­kij e Grotowsky. Vivevamo a Roma in un sottoscala senza acqua calda. Cominciai a lavorare con Armando Pugliese». Nel 1978, arrivò Ecce Bombo di Nanni Moretti. «Venivo da Masaniello, da Natale in casa Cupiello di Eduardo in tv. Era un altro mondo». Nanni Moretti le disse di non farsi vedere insieme, senno’ potevano pensare che stavano insieme. Sorride: «Faceva parte delle sue fissazioni e paure». C’era la politica, in quella Roma, per lei era «un modo di vivere, una maniera di fare teatro. Sono sempre stata di sinistra: gli attori poveri, gli intellettu­ali, la fuga da casa senza niente, il credere in un mondo migliore».

Le domande

Napoli pone molte domande e ha poche risposte: perché è così difficile parlarne? «Perché ha una tale storia. Roma non è stata sacrificat­a alle dominazion­i straniere. Se uno vive a Napoli da napoletano, ne coglie la bellezza e la bruttezza. Ho scritto una poesia: Ti odio città matrigna, senza cuore, odio il tuo suono antico…La poesia è nata per mancanza di Dio. Napoli ha i vicoli bui, giri l’angolo e ti trovi ‘sto Golfo meraviglio­so. Ora c’è un’energia straordina­ria, un riappropri­arsi di se stessi, un’energia che a Roma manca, quando vado lì non mi sento sola». Perché non ci torna a vivere? «Dopo un po’ ti sta stretta, ti mangia». C’è una bella borghesia a Napoli, non sdraiata come a Roma. «Ti sbagli, la borghesia è uguale ovunque. Conoscono solo ciò che vogliono conoscere, hanno i loro riti e regole, sono noiosissim­i».

Lina e il paragone con Anna Magnani («me lo dicono tuttora, sono sincera, popolare»); Lina e Pulcinella («con le maschere non ho un buon rapporto, ne ho una tutta rotta in camerino»); Lina libera («da poco nell’ambiente accettano la mia trasversal­ità e sono diventata un’icona mediterran­ea»). Si è ritrovata borghese, bionda, in Napoli velata di Ozpetek. Ne ha preso atto, al servizio del regista: «Non lo sapevo prima della parrucca». La lezione di Eduardo: «Ero comparsa nel Sindaco del rione

Sanità, una presenza muta, piccolina, lontana. Ero la puttanella di uno dei guappi e dovevo portare rossetto, collane, un po’ volgare. Una sera mi presentai senza quel sovraccari­co, tanto, pensai, non mi vede nessuno in quinta. Eduardo recitò il monologo da sindaco: avete portato le vostre donne con i loro bracciali, le loro collane. Mi fulminò; mi sentii morire: aveva improvvisa­to quelle parole vedendomi. Ho capito che in teatro si vede tutto».

Senza amore

Napoli, Roma. Ma l’amore dov’è? La passione esplose con Kocochinsk­i, il pittore, lo scultore, l’incontro del destino. «Cantò una sua canzone: Com’è bello il mare. Lo conobbi così. Alessandro si mise a disegnare un Nettuno triste con un cavallucci­o marino che ero io. Dopo sposò una donna meraviglio­sa che ha avuto accanto fino all’ultimo giorno di malattia. Era cieco, pieno di sofferenze. Andarsene, per lui, fu una liberazion­e». Lei è stata anche sposata. «Sei mesi ,con un argentino. Avevo 35 anni. Ero ancora disposta a guardare il baratro e a buttarmici dentro». Non è più disposta a innamorars­i? «Lo vorrei eccome, non so vivere senza amore, è una condizione non umana». E ritorna il «non» che ne punteggia le parole. Stavolta è un «non» che aspetta un cuore.

Napoli / 1 Io non ho la famiglia rumorosa, non cucino bene e non mangio il ragù. Però sono profondame­nte napoletana Napoli / 2 A Napoli c’è un’energia straordina­ria, un riappropri­arsi di se stessi, che a Roma manca. Lì non mi sento sola

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