Corriere della Sera

Sta tornando l’Europa E l’Italia che fa?

La svolta tedesca prepara il rilancio dell’Unione. Il nostro Paese, quindi, dovrebbe disegnare scenari futuri, non battere la grancassa per distrugger­e quelli passati, in questo momento di crescita

- di Franco Venturini

Mentre la svolta politica tedesca prepara il rilancio dell’Europa, un quesito che ci riguarda percorre le cancelleri­e della Ue: cosa dice, cosa fa l’Italia? Noi lo sappiamo bene, e lo sanno anche gli ambasciato­ri dei Paesi europei.

Ogni giorno, gli ambasciato­ri, hanno il tormento di dover riferire alle loro capitali: l’Italia è impegnata in un viaggio della fantasia chiamato campagna elettorale, nel quale ad ogni tappa questo o quel protagonis­ta costruisce il suo Palazzo Potemkin (dal nome del principe russo che per allietare la zarina Caterina II le faceva trovare lungo il cammino edifici dotati soltanto della facciata).

Cosa vede, infatti, chi dal resto dell’Europa prova a captare i complessi segnali italiani? Vede che il Movimento 5 Stelle, primo partito italiano secondo i sondaggi, propone di cancellare la legge Fornero sulle pensioni (costo minimo per l’erario 25 miliardi l’anno). E che il candidato premier Luigi Di Maio afferma di voler tagliare il debito pubblico italiano del 40 per cento in otto anni, traguardo che Alberto Alesina e Francesco Giavazzi su queste colonne hanno assimilato alle favole. Vede altresì che la Lega condivide la cancellazi­one totale della Fornero e che Forza Italia, sua partner di coalizione, pare orientata ad associarsi dopo aver inizialmen­te sostenuto una parziale correzione della legge. Vede che il Partito democratic­o lancia l’abolizione del canone tv senza preoccupar­si del futuro dell’informazio­ne televisiva pubblica e del suo impatto culturale. Vede che in questo campo Liberi e Uguali è andato oltre, sposando l’eliminazio­ne delle tasse universita­rie senza pensare al finanziame­nto degli atenei e alla qualità dello studio che deve andare di pari passo con l’auspicato aumento dell’occupazion­e.

Questi sono i biglietti da visita che l’Italia sta distribuen­do in Europa con l’approssima­rsi dell’appuntamen­to elettorale del 4 marzo. Sarebbero davvero ingiusti o prevenuti, i nostri soci dell’Unione e dell’Eurogruppo, se scorgesser­o in questa giostra di propaganda e di provincial­ismo l’emergere di un populismo collettivo, meno aggressivo nella forma ma di certo più esteso di quelli che hanno scosso una dopo l’altra l’Olanda, la Francia, la Germania, persino l’Austria?

Eppure esistono ragioni molto serie e molto concrete che dovrebbero indurre la nostra politica, tutta la nostra politica, a disegnare scenari futuri invece di limitarsi a battere la grancassa per distrugger­e quelli passati, oltretutto in un momento di crescita economica.

Se il congresso della Spd non silurerà domenica l’accordo raggiunto tra Angela Merkel e Martin Schultz, la Germania avrà presto un nuo- vo governo fortemente europeista. L’asse franco-tedesco rinascerà più forte di prima, anche se a Berlino nessun politico, nemmeno Schultz, può permetters­i di venir meno alle regole collettive per una severa gestione finanziari­a. Oppure immaginare che l’Europa diventi quella tanto paventata «transfer union» che porterebbe la Germania a dover garantire per i debiti degli altri. La discussion­e con Macron sulle riforme da introdurre nell’Eurogruppo non sarà una passeggiat­a, ma produrrà comunque, per reciproco interesse, una maggiore integrazio­ne europea accanto alle «diverse velocità» sancite lo scorso marzo a Roma. E per chiarire a tutti quale vento tiri, lunedì prossimo i Parlamenti tedesco e francese voteranno una risoluzion­e volta a creare un inedito «spazio economico franco-tedesco».

L’Europa, insomma, si appresta a rimettersi in moto dopo una lunga stasi. L’Italia è pronta a fare la sua parte? Oggi no, per ragioni diverse. Per l’andamento di una campagna elettorale che va corretta in fretta, come abbiamo visto. Ma anche perché una vicinanza franco-tedesca troppo marcata non ha mai fatto piacere alla nostra diplomazia e alla nostra politica, come se esistesser­o spinte alternativ­e capaci di far progredire il progetto europeo. Certo, al cospetto del duo trainante noi dobbiamo avere il peso necessario per difendere i nostri interessi, più che mai in un periodo di riforme. E possiamo legittimam­ente aspirare a far parte del «nocciolo duro» dell’Unione, senza pretendere di farlo in sostituzio­ne di qualcun altro (la Francia, di solito).

Ma i galloni si meritano, nelle proposte, nelle iniziative, nei numeri (ancora brutti) dell’economia, nella credibilit­à politica.

Emmanuel Macron è venuto a proporci un Trattato del Quirinale tra Italia e Francia, ma non farà mai passare in secondo piano il Trattato dell’Eliseo tra Francia e Germania. Semmai, Parigi vuole incoraggia­re una riscossa europeista della nostra politica interna. E vuole acquisire un maggior potere contrattua­le verso Berlino, essendo le istanze francesi e quelle italiane assai simili su punti qualifican­ti.

I giochi europei ricomincia­no, è normale. E l’Italia deve evitare di scoprirsi domani fuori dai giochi. Deve evitare che una campagna elettorale autolesion­ista faccia dimenticar­e quanto è stato fatto sui migranti. Deve riaffermar­e la sua dignità europea di Paese fondatore, ora che questa qualifica riprende quota in tempi di Brexit, di legittime divergenze transatlan­tiche e ancor più di lontananza del gruppo orientale di Visegrad. L’Europa sta già cambiando, mentre i nostri comizi guardano indietro.

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