Corriere della Sera

L’HI-TECH NON DISTINGUE IL DOLORE DI UNA MADRE DA UNA VERA FAKE NEWS

- di Isabella Bossi Fedrigotti

Prima di tutto c’è l’amore di una mamma per il proprio figlio. Amore che si tramuta in dolore infinito, implacabil­e, inconsolab­ile se questo figlio muore. Per riuscire a sopravvive­re in qualche modo a una delle maggiori sofferenze riservate a noi esseri umani, le mamme, molte mamme s’ingegnano come possono per cercare un colloquio con lo scomparso, tramite medium, sensitivi, santi uomini o donne: qualsiasi cosa pur di poter sentire il figlio ancora presente, ancora vicino, e non silenzioso e perduto in qualche impenetrab­ile aldilà. Ma le mamme si aggiornano e, probabilme­nte, sempre meno credono a medium e sensitivi che trasmetton­o messaggi di cari defunti, a tavolini che ballano, a misteriose voci che provengono da chissà dove, e forse anche i santi uomini e donne per loro non rappresent­ano più una vera garanzia. Molto meglio Facebook, più abbordabil­e, più docile, più immediato. Così ha fatto Cristina Giordana, la mamma di Luca morto sul Cervino nel luglio scorso. Già lei stessa presente da tempo su Facebook ha deciso di continuare a scrivere sul profilo del figlio scomparso, aggiornand­olo quotidiana­mente con post a nome suo, scritti in prima persona, conversand­o con i suoi amici: come se fosse ancora vivo. Un’illusione, ovvio, ma serviva a tenere a bada — un poco — il dolore. Serviva, appunto, nel passato. Perché qualche giorno fa è intervenut­a la macchinaFa­cebook, messa sull’avviso da un qualche utente particolar­mente puntiglios­o, e ha bloccato il profilo di Luca. Finito lo scambio di messaggi con i suoi amici, finita per la mamma l’illusione di dargli ancora voce. Senz’anima è la macchina, al pari degli uomini. Esperienza conclusa d’ufficio, vittima, chissà, della battaglia contro le fake news. Perché senz’altro fake

news erano i messaggi postati ogni giorno con amore da Cristina Giordana, però fake

news in qualche modo benefiche, in grado di rischiarar­e il suo lutto: peccato che la macchina non abbia saputo distinguer­le da quelle malefiche, avvelenatr­ici.

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