La campagna del premier sul filo del «fuorigioco» I paletti al Pd sull’economia
La presentazione Domani a Milano la presentazione del programma coordinato da Boschi
Domani si capirà se la ROMA sintonia tra Gentiloni e Renzi è solo una rappresentazione mediatica o il caposaldo su cui il leader democrat vorrà imperniare un progetto politico che vada oltre il 4 marzo. Domani il Pd presenterà il programma elettorale, ieri il premier ha dato l’indicazione del perimetro dentro il quale dovrebbero muoversi tutti i partiti, dunque anche (anzi soprattutto) il suo. Si vedrà se l’appello a «non scardinare i pilastri del nostro sistema, dalle pensioni al Fisco», verrà recepito nelle tesi economiche, o se invece prevarrà l’idea — accarezzata al Nazareno — di un «ritorno a Maastricht», di un rilancio cioè della spesa pubblica fino al limite del 3% nel rapporto deficit-Pil.
Pare che per la stesura del programma, coordinato dalla Boschi, Gentiloni non sia stato consultato. E chissà se il testo conterrà il suo auspicio di una riduzione «graduale e significativa» del debito pubblico: di certo la sua linea incrocia i consensi di Calenda e Padoan. In ogni caso il premier serve a Renzi in questa difficile campagna elettorale, ed è evidente come il segretario del Pd voglia preservare l’immagine dell’armonia, tanto che ieri ha voluto dare «il giusto riconoscimento a Paolo»: «Storicamente la sua famiglia ha avuto la tendenza alla mediazione, a tenere unite le cose e le persone».
Se poi Gentiloni succederà a se stesso a Palazzo Chigi, dipenderà dal voto e dagli equilibri tra partiti. Ma non c’è dubbio che il «governo del presidente» evocato da D’Alema sul Corriere per la prossima legislatura, di fatto sia già stato sperimentato in quella appena terminata. E non solo per lo stretto rapporto tra il premier e il Colle, che si è saldato in passaggi delicati come la conferma di Visco in Bankitalia. Ma anche perché Gentiloni ha potuto contare in Parlamento sul sostegno di gruppi contigui alla maggioranza sebbene fuori dall’esecutivo come Ala, e talvolta persino sull’appoggio più o meno aperto di gruppi di opposizione come Forza Italia.
In un anno la sua presidenza ha assunto così un profilo «terzo» e adesso viene la parte più difficile. In campagna elettorale dovrà muoversi sul filo del fuorigioco. Per un verso non potrà troppo esporsi, per non finire in off-side: la polemica divampata dopo le critiche rivolte alla giunta grillina di Roma — per esempio — le ha considerate «un effetto non voluto». Per l’altro verso non potrà rimanere troppo arretrato nello schieramento d’attacco del Pd: e la disponibilità a candidarsi anche in un collegio uninominale ha spiazzato quanti nel governo volevano rifugiarsi solo nel proporzionale.
Insomma, Gentiloni non può intaccare la sua allure e al contempo deve garantire una plusvalenza elettorale al suo partito, se è vero che — come racconta il Fatto — per alcuni sondaggisti «vale un milione di voti»: per come si propone da presidente del Consiglio più che per il partito di provenienza. È un consenso trasversale che, insieme alla complicata contingenza politica, ha indotto Renzi a cambiare schema di gioco: non sono più i tempi in cui «il nostro statuto prevede che il segretario sia anche candidato premier»; ora il leader dem parla di «squadra» e lavora perché ci sia «uno del Pd a Palazzo Chigi».
La metamorfosi di Gentiloni sta tutta dentro un paradosso: riesce a bucare mediaticamente, nel senso che — rispetto a Renzi — oggi fa «passare» con maggiore facilità i risultati ottenuti dal Pd in questa legislatura. Va così. E il segretario dem non vuole (né può) rinunciarvi. Per l’oggi e (forse) per il domani. Anche perché — come spiega Lotti nelle riunioni riservate — «nella prossima legislatura ci saranno al massimo i numeri per un governo di larghe intese». E a quell’incrocio troverebbero Berlusconi, che nella versione ecumenica Confalonieri-Letta si è sprecato in endorsement per Gentiloni («Persona gentile e moderata che saprà gestire questo delicato periodo con avvedutezza») e persino per Padoan («Persona perbene e che stimo, anche se ha sbagliato molte cose»).
A quell’incrocio vorrebbe trovarsi lo stesso D’Alema. O almeno questa è una certezza che il Cavaliere ha ricavato, non si sa come: «Lui non permetterà mai ai suoi di sostenere un governo con i grillini». In realtà prima delle urne è impossibile stabilire se Gentiloni potrà interpretare o meno il ruolo del premier di un «governo del presidente». Di sicuro però ieri ha fatto una prova audio-video al Tg5: «Se facciamo una campagna elettorale che diventa una fiera delle illusioni e dell’odio, è difficile chiedere la partecipazione al voto dei cittadini. Cerchiamo di essere credibili...». Domani si presenta il programma del Pd.