Corriere della Sera

«Condannato, ho fatto il mio dovere Non aveva timbrato il biglietto»

Belluno, il capotreno finito a processo. Il passeggero, un migrante, non è più in Italia

- Andrea Pasqualett­o

«Mi sono beccato calci e sberle per aver fatto rispettare le regole e sono stato pure condannato. È meglio che non ci pensi». Giornata difficile per il capotreno Andrea Favaretto. Perché la notizia che rimbalza da Belluno è di quelle che non aveva proprio messo nel conto: il tribunale gli ha inflitto 20 giorni di pena per tentata violenza privata e ha trasmesso gli atti alla Procura perché lo indaghi per abuso d’ufficio. Il motivo della tegola? Oltre due anni fa Favaretto, veneziano di 51 anni, avrebbe costretto un nigeriano a scendere dal treno alla stazione di Santa Giustina (Belluno) perché non gli faceva vedere il biglietto.

«È andata così — racconta oggi il capotreno mentre sta salendo a Venezia in una carrozza diretta a Belluno —. Il collega del regionale precedente mi aveva avvertito che in stazione c’erano dei nigeriani che aveva fatto scendere. Quando l’ho visto a bordo gli ho chiesto il biglietto. Una, due volte, ma lui era sempre al cellulare e non mi dava retta. Ho così pensato di prendere il suo borsone e portarlo a terra, in modo che scendesse anche lui». Strategia azzeccata ma fino a un certo punto. Ne è infatti nato uno scontro fra lui e il nigeriano, un omone di 42 anni. «Mi ha seguito arrabbiato e mi ha preso a calci e sberle facendomi cadere gli occhiali. Io ho chiamato i carabinier­i per poi risalire sul treno che doveva ripartire. Oh, io non sono razzista, faccio il mio lavoro e cerco di farlo bene con tutti, italiani o stranieri che siano».

Fin qui la versione del capotreno, che i colleghi descrivono come persona mite. Ma se davvero le cose sono andate così com’è possibile che i magistrati di Belluno abbiano deciso una simile condanna, bollata ieri come surreale e beffarda da vari politici (Luca Zaia ha parlato di «vicenda incomprens­ibile alla gente comune»)?

In attesa delle motivazion­i, che arriverann­o fra un paio di mesi, una traccia si può trovare nel capo d’imputazion­e del processo. «Favaretto ha ritenuto di avere a che fare con un viaggiator­e sprovvisto di legittimo titolo di viaggio», scrivono i giudici dicendo così che il nigeriano un biglietto ce l’aveva. E questa sarebbe la ragione per cui era furibondo e voleva risalire sul regionale partito da Belluno e diretto a Padova. «Se non sali non ti denuncio», gli aveva risposto Favaretto. Parole che ora gli costano l’abuso d’ufficio. «È stata una reazione istintiva dovuta alla concitazio­ne del momento. Temevo che risalendo potesse aggredirmi un’altra volta. Quanto al biglietto, non era regolare: l’ha timbrato prima che arrivasser­o i carabinier­i. L’ora impressa è infatti successiva a quella dell’arrivo in stazione».

Amaechi aveva dunque un biglietto. Il fatto è che non l’aveva mostrato subito al controllor­e, inducendol­o a pensare il contrario. All’origine della vicenda potrebbe dunque esserci un banale malinteso. Costato al capotreno una graticola giudiziari­a di due anni, una condanna e una nuova indagine. «Faremo certamente ricorso ma vorrei ricordare che c’è un procedimen­to per lesioni anche contro il nigeriano, che però risulta irreperibi­le», dice l’avvocato Jenny Fioraso che con Giorgio Azzalini difende il capotreno. Già: il nigeriano Amaechi Festus non è più in Italia da quasi due anni, come risulta alla polizia di frontiera di Venezia. Cioè, mentre carabinier­i e magistrati indagavano e processava­no il capotreno, lui stava altrove, espatriato. Tant’è che non si è neppure costituito parte civile. E forse oggi non sa che la giustizia italiana gli ha dato ragione. «A me invece ha dato torto... ma ho la coscienza a posto. Adesso la devo lasciare perché sono in servizio e il treno sta partendo».

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