GIOVANI, LAVORO, PENSIONI SERVONO TRE CAMBIAMENTI
Siamo più sani e longevi ma ciò sembra diventato il problema che ci condanna a un declino senza fine. La soluzione sta in un approccio non ragionieristico
E siste una classifica nella quale l’Italia riesce, ancora, ad essere ai primi posti nel mondo. È quella per la «speranza di vita media» nella quale siamo quinti ed è una graduatoria importante visto che utilizza il parametro con il quale il premio Nobel Amartya Sen sostituirebbe il Prodotto interno lordo per misurare la ricchezza delle nazioni. Sembra, tuttavia, esserci una contraddizione insanabile tra progresso scientifico ed economia: siamo più sani e longevi ma ciò sembra diventato il problema che ci condanna a un declino senza fine. Se solo riuscissimo a ragionarne in termini strategici e non ragionieristici, troveremmo il modo di cambiare il Paese e, forse, l’esito di elezioni che sembrano destinate a non avere vincitori.
In Italia spendiamo quattro volte di più in pensioni che in ricerca e formazione, dagli asili alle università. Spendiamo in sussidi per chi, tecnicamente, è uscito dal mondo del lavoro, più di quattro volte quello che investiamo in quelli che si stanno preparando per entrarvi: è evidente che un Paese con questi numeri non ha futuro.
Il punto è che però di riforme delle pensioni ce ne sono state già sette in venticinque anni. Il primo a occuparsene fu Amato nel 1992 ma, secondo la nota che accompagna l’ultima finanziaria, solo nel 2040 la spesa in pensioni comincerà a ridursi. Continuiamo a spendere in previdenza più di chiunque altro in Europa; sei punti di Pil in più (equivalgono a un risparmio teorico di 90 miliardi di euro all’anno) rispetto alla Germania, che pure è il Paese con un welfare più sviluppato del nostro e una struttura demografica simile. È evidente che abbiamo sbagliato approccio. Che politicamente non ha prodotto nulla, ridurre una grande trasformazione a un triste scontro generazionale.
Tre sono i cambiamenti necessari per trasformare i vincoli in risorsa.
Devono cambiare, innanzitutto, le università e il mondo del lavoro. È fuori dal tempo l’idea che nella vita si succedano stagioni fisse. Così come lo studio dei ragazzi va «alternato» al lavoro, è altrettanto vero che momenti di apprendimento devono accompagnare — per tutta la vita — i lavoratori maturi. Nella stessa maniera, dovremmo cominciare a pensare a «jobs acts» anche per i più anziani che incoraggi le imprese a essere più creative per valorizzare l’esperienza: tutoraggio dei più giovani; volontariato; consulenza. In Svezia più di un quarto degli ultra sessantacinquenni lavorano; in Italia siamo sotto al dieci per cento.
In secondo luogo, devono cambiare le tecnologie che tanto promettono e spesso falliscono. Tutte le interfaccia tra calcolatore e individuo sono pensate per gli adolescenti. Sono, però, le persone con più di sessantacinque anni che hanno la necessità di usarle per lavorare e vivere senza dover superare spostamenti traumatici. A Lucca un laboratorio sta provando a mettere insieme giovani che insegnano agli anziani come usare le macchine; mentre gli anziani provano a far capire ai ragazzi come immaginare computer con i quali dialogare e progettano, insieme, nuove applicazioni.
Infine, potremmo anche pensare — se cominciassimo ad adattare imprese, istituzioni, scuole e tecnologie alla sfida della longevità — di mandare in pensione l’idea stessa di pensione come atto obbli- gatorio e uguale per tutti. Un altro premio Nobel, Richard Thaler, fa proprio il caso delle pensioni quando propone che la funzione dello Stato debba essere quella di chi favorisce comportamenti, ma non li pretende per legge (la teoria dei «nudge»). Le persone devono essere incoraggiate a risparmiare nei periodi di maggior lavoro per ridurre il proprio impegno quando potranno o vorranno. Ma non toccherà più a un’amministrazione pubblica regolare scelte che torneranno a essere individuali. Rimane, invece, e diventa più forte il ruolo dello Stato che raggiunge «ciascuno in funzione dei suoi bisogni», a prescindere dall’età e dalla condizione lavorativa: è una rifondazione del welfare quella che è resa necessaria da una rivoluzione industriale che cambierà il ruolo stesso del lavoro come valore sul quale fondare sistemi economici e diritti.
In fondo, questa società che risponde con istituti rigidi a una modernità così liquida produce Paesi che non sono né per vecchi, né per giovani. In questo momento ci sono ragazzi senza lavoro e anziani che si sentono inutili. È un doppio spreco di talento e di esperienza. È urgente trovare un’altra strategia, che superi la logica di governi che si scambiano il cerino che sta bruciando la crescita potenziale di un Paese che ha nel capitale umano il proprio unico petrolio. Dobbiamo far uscire il progresso da una trappola nella quale l’ha cacciato la pigrizia intellettuale e politica delle «coperte troppe corte». Ricominciare a usare immaginazione e pragmatismo per ridefinire i termini di una questione che definisce il tipo di Paese nel quale vogliamo vivere tra dieci anni.