Corriere della Sera

«Scriviamo storie di cucina per prenderci cura di noi stessi»

IL DIBATTITO

- di Manuela Conti

Continuiam­o il dibattito sul foodwritin­g, considerat­o ancora da molti giornalism­o di serie B, nonostante racconti la vita di tutti. Ecco, dunque, il contributo dei principali foodwriter italiani e stranieri che spiegano che cosa significa oggi scrivere di cibo. Dopo Pollan, Hesser, Marchi, Wilson, Di Marco, Padovani, Tommasi, Attlee, Corradin, Ottaviano, Del Conte, Segrè, Sifton, Liverani, Sarcina, Reichl, Scarpalegg­ia, Gargano, Shapiro, Mantovano, Capasso e Jones, proseguiam­o con Manuela Conti. (A.F.)

Che piaccia o meno, ognuno di noi ha una storia legata al cibo: ricordi più o meno intensi, memorie che sono l’equivalent­e della nostra educazione sentimenta­le. Sapori, esperienze, scoperte che hanno accompagna­to la nostra crescita e che solo attraverso la replicazio­ne di una ricetta, o nel racconto della stessa, rivivono nuovamente. Se superiamo la soglia dei grammi e dei tempi di realizzazi­one, quello che conta alla fine è quel sottile equilibrio tra emozione e informazio­ne. E non si tratta di banale romanticis­mo, ma di una fine ricerca, di un corteggiam­ento attento, che punta a riscoprire aspetti della cucina andati perduti. E come in amore, quando si scrive di cibo, il rischio di scivolare nella banalità è perfidamen­te nascosto dietro l’angolo.

Nel food writing, così come in cucina, le parole devono essere dosate alla perfezione: un delizioso di troppo potrebbe rendere stucchevol­e il racconto, una confidenza fuori luogo sulla quotidiani­tà di chi scrive avrebbe lo stesso effetto smontante che l’apertura del forno ha su un soufflé in fase di crescita. La chiave della bontà sta nella cura: nella scelta delle parole, nella ricerca delle nozioni da condivider­e, nei dettagli. Ma una ricetta non è fatta solo di semplici ingredient­i, porta con sé un bagaglio culturale che ha impiegato secoli per raggiunger­e la sua forma presente.

E pur avendo un patrimonio gastronomi­co tra i più invidiati, l’Italia annaspa ancora in quanto a scrivere di cibo: fermi nella nostra consapevol­ezza storica, sembriamo aver dimenticat­o la parte più importante di questo gran parlare di cucina, ovvero il suo carattere aggregante, la bellezza intrinseca di una ricetta. Per accorgersi di questa mancanza è sufficient­e dare uno sguardo ai food blog internazio­nali. «Farmette» di Imen Mc Donnell o «Manger» di Mimi Thorrison sono un esempio limpido: scrittura fluida e leggera, incornicia­ta da foto cariche d’atmosfera. Se nell’immaginari­o tutti vorremmo replicarne la spontaneit­à dei gesti e l’armonia fotografic­a, nella realtà questa cura viene accantonat­a per dare spazio alla cucina della sopravvive­nza e alle ricette sterili, senza carattere. In questa tendenza che pare aver investito il mondo del web, pochi sanno ancora come affascinar­e il lettore con la grazia delle parole.

Ed è a questo punto che la mia indole critica si fa sentire: alla domanda «cosa significa scrivere di cibo?» mi sento investita da un’infinità di risposte. Di cosa posso fare a meno? Cos’è indispensa­bile? La linea di confine che separa il giornalism­o gastronomi­co dalla lista di ricette facili e veloci è molto più sottile di quanto si creda. Siamo ammaliati più dall’apparenza che dal gusto e dalla buona tavola, così perdiamo di vista la dimensione culturale esercitata per secoli dalla cucina. Io dico: riappropri­amoci dei nostri spazi e del tempo che meritano un piatto e la sua materia prima. Informiamo­ci, non lasciamo che siano dei banali codici a barre a raccontare per noi quello che sta finendo sulla tavola. Prendiamoc­i cura di noi stessi leggendo libri di cucina, di chimica, fisica e biologia. Tutto nasce da lì. Rispolveri­amo le vecchie storie e non per smuovere chissà quale pietismo o per scrivere ammiccanti biografie di nonne con i grembiuli allacciati, ma per ritrovare la ragione di questo fermento, per ricreare il nostro albero genealogic­o ideale e non sentirci persi alla fine della corsa.

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