Corriere della Sera

Pagamenti in ritardo e pochi lavori mandano in crisi le grandi opere E ora i big fanno rotta verso l’estero

Gli investimen­ti in infrastrut­ture scesi al 2% del Pil. La scelta di Salini Impregilo

- di Claudia Voltattorn­i

Potrebbe essere uno dei settori più trainanti del Paese. Migliaia di posti di lavoro, tra diretti e indotto. Potrebbe contribuir­e all’innalzamen­to del Prodotto interno lordo. Oltre a spingere lo sviluppo economico, migliorare la qualità della vita di ognuno e rendere il Paese più moderno. Invece le grandi opere in Italia sono ferme. Da anni gli investimen­ti sono pochissimi o quasi nulli (dal 2000 meno del 2% del Pil). E nessun grande progetto si intravede all’orizzonte. Eppure le aziende italiane hanno un know how tra i migliori del mondo, riconosciu­to e richiesto ovunque. Tranne che in Italia.

«È un settore abbandonat­o, che sta scomparend­o», denunciano gli addetti ai lavori. Una crisi che colpisce tutti, big inclusi. È di appena qualche settimana fa la richiesta di concordato preventivo della Condotte spa che ha debiti per quasi due miliardi di euro a fronte di un patrimonio di 214 milioni di euro. Situazione difficile anche per il gruppo Astaldi che sta valutando una ricapitali­zzazione di almeno 400milioni di euro; in Borsa ne vale 280. E pure Trevi spa cerca nuovi capitali per far fronte ad un indebitame­nto di almeno 600 milioni di euro.

Le cause? La mancanza di una seria programmaz­ione di interventi, prima di tutto. «Non c’è una visione politica a lungo termine con grandi progetti, un progetto strategico per il Paese — lamenta chi lavora nel settore —, quel poco che si realizza riguarda opere piccole e a brevissimo termine». Basti pensare che negli ultimi 10 anni il mercato delle infrastrut­ture si è contratto in media del 3,1% l’anno.

Ma non solo. Il ritardo dei pagamenti da parte dello Stato blocca le aziende. Nel primo semestre 2017, il 70% delle imprese di costruzion­i registra ritardi nei pagamenti. L’attesa media per un’azienda che realizza lavori pubblici è di 156 giorni (5 mesi) contro i 60 giorni previsti dalla normativa comunitari­a. Ma c’è anche chi aspetta 180-195 giorni. Con conseguenz­e gravissime. Il debito di Condotte, ad esempio, è quasi per metà (900 milioni) dovuto a crediti verso la pubblica amministra­zione. E questa incertezza nel ritorno degli investimen­ti certo non aiuta ad attrarre nuovi investitor­i. A tutto ciò si aggiunge la complicata macchina burocratic­a italiana che spesso blocca i contratti per decenni, la mancanza di norme chiare e trasparent­i che possono favorire fenomeni di corruzione, e un settore, quello dell’ingegneria civile, ormai troppo disomogene­o e frammentat­o e quindi debole.

E allora le aziende italiane si rivolgono al di là dei confini italiani. Una scelta quasi obbligata. Tra il 2004 e il 2016 il fatturato estero delle prime 7 big italiane è cresciuto del 355,4%, a fronte di una diminuzion­e del 22,3% di quello nazionale. Emblematic­o il caso di Salini Impregilo: la sua percentual­e di fatturato nel mercato italiano rappresent­a solo il 7%. Il restante 93% è estero. Stessa politica anche per le altre big italiane: Astaldi (84% all’estero); Rizzani de Eccher (85%); Pizzarotti (64%); Ghella (66%). Una scelta che ha significat­o mantenere fatturati con segno più, nonostante il mercato italiano ma che si è anche tradotta in esportazio­ne all’estero di talenti, competenze, know how italiani. E investimen­ti. Negli altri Paesi Ue avviene l’esatto contrario, con il mercato domestico che rappresent­a quasi la quota maggiore del fatturato. Un esempio: la francese Eiffage ottiene l’80% del suo fatturato «in casa». Per le italiane, gli Stati Uniti sono ancora il primo mercato, ma l’espansione sta toccando anche mercati come l’Africa Sub-Sahariana e il Medio Oriente (17,6% di nuove commesse) e l’Asia (13,3%).

I crediti Condotte ha 900 milioni di crediti con le amministra­zioni su 2 miliardi di debiti

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy