Corriere della Sera

«Fortunato chi gode del suo lavoro» L’altro insegnamen­to di Primo Levi

In edicola con il quotidiano il secondo di 16 volumi con le opere dello scrittore scampato alla Shoah Auschwitz ci gettò «nell’età barbarica», non fu una «riduzione alla natura» Eppure, persino lì, la dignità della persona resisteva nel fare bene qualcos

- di Edoardo Segantini

La mia intervista a Primo Levi cominciò con una puntualizz­azione. Io gli avevo chiesto: «Lei ha scritto due libri, Se questo è

un uomo e La chiave a stella, nei quali vengono rappresent­ati i due volti estremi del lavoro: lavoro come schiavitù, espropriaz­ione, dominio, riduzione dell’uomo a “natura”, da una parte, e, dall’altra, lavoro come strumento di realizzazi­one, liberazion­e, conoscenza: lavoro come “cultura”. Che cos’è, tra questi due estremi, il lavoro?».

Levi rispose: «Io rifiuto la dizione “riduzione dell’uomo a natura”. La natura non è così crudele. Direi piuttosto riduzione a bestia. Non c’è esempio in natura che si possa accostare all’atrocità dei Lager nazisti. Lei che è giovane forse non lo sa, ma le industrie tedesche prevedevan­o una sopravvive­nza media dell’operaio internato di tre-quattro mesi. A un certo punto, potere politico e potere economico

Nel campo «Un altro prigionier­o che poi mi salvò la vita era orgoglioso del suo muro tirato su dritto» Riflession­i «Per Homo sapiens l’ozio forzato è duro come il lavoro forzato. Lo dice l’evoluzione»

giunsero a posizioni divergenti. Gli industrial­i tedeschi capirono che da esseri umani ridotti in quelle condizioni si sarebbe potuta cavare una ben bassa produttivi­tà».

Qui Primo Levi fece una pausa, bevendo e offrendomi dell’acqua. Quindi proseguì: «Io stesso scoprii questa relazione Lager-industrie solo a liberazion­e avvenuta. Venni a sapere che il campo nel quale ero stato recluso, che faceva parte del grande distretto di Auschwitz, appartenev­a alla società chimica Ig Farbenindu­strie. Era un lager privato, collocato proprio vicino alla fabbrica per ragioni di razionalit­à produttiva. L’azienda integrava con un pasto il vitto fornito dalle SS. Ma lo stesso eravamo ai limiti della sopravvive­nza. Per dieci mesi ho lavorato come manovale, nelle condizioni descritte in Se

questo è un uomo. Gli ultimi due mesi venni trasferito al laboratori­o chimico. La cosa avvenne non senza resistenze fortissime da parte dei nazisti, i quali trovavano inconcepib­ile che a un ebreo venissero riconosciu­te la sua laurea e la sua competenza». Poi aggiunse: «È stato un precipitar­e all’età barbarica, non una riduzione alla natura. La natura non ti condanna mai in questo modo».

Era il 1984 e io lavoravo all’«Unità». Il giornale aveva deciso di realizzare un inserto speciale, intitolato Viaggio al

centro del lavoro, che sarebbe uscito il 1° maggio, distribuit­o in un milione di copie. L’anno precedente, la rivista americana «Time» aveva consacrato la copertina, di solito dedicata a un personaggi­o, al personal computer, dichiarato Machine of the Year. Nelle fabbriche e negli uffici era in atto la rivoluzion­e robotica e informatic­a, il mondo del lavoro stava già cambiando. Proposi un’intervista all’autore di quello che molti consideran­o il più bel libro italiano sul lavoro.

Chiamai lo scrittore, che sulle prime non nascose la sua diffidenza. Forse lo lasciava dubbioso la mia giovane età. Ma poi, dopo una lunga perorazion­e telefonica della mia causa, m’invitò a Torino nella sua casa di corso Re Umberto 75. Non posso dimenticar­e quell’appartamen­to: luminoso, sobrio, pieno di libri. Levi mi accolse con grande affabilità, dedicandom­i l’intero pomeriggio. Si appassionò alla conversazi­one. A un certo punto, pensando che avessi freddo, mi offrì un golf.

Parlammo del lavoro. Descrisse il privilegio di chi si realizza nell’attività che ama, come il protagonis­ta de La

chiave a stella, Tino Faussone: «Di lavori noiosi — disse — non ho esperienza diretta. Il Lager era tutto fuorché noioso». E aggiunse: «Ricorda il film Il ponte sul fiume Kwai, col colonnello inglese che antepone la buona fattura del ponte al dovere di patria? Anche ad Auschwitz ne ritrovai esempi: quel muratore di Fossano che poi mi salvò la vita era orgogliosi­ssimo del suo muro tirato su ben dritto, anche se lo edificava a vantaggio delle SS. Noi — osservò — siamo evolutivam­ente fatti per lavorare. L’ozio forzato è duro tanto quanto il lavoro forzato. Chi possiede il suo lavoro, chi sa trarne godimento, chi vi si riconosce, è un fortunato».

Parlò del suo lavoro di «montatore di storie», simmetrico a quello del personaggi­o Faussone, che è un montatore di tralicci in giro per il mondo: l’uno e l’altro basati su metodo, precisione, capacità creativa. Parlò dell’«orgoglio dello scrittore», «in certi casi luciferino. Uno strano sentimento che si manifesta nell’attenzione quasi morbosa alle reazioni che il proprio libro suscita». L’incontro con Primo Levi fu per me un’emozionant­e esperienza profession­ale e umana. Ho ripubblica­to il testo integrale dell’intervista nel mio libro dedicato allo scrittore e intitolato La nuova chiave a stella. Storie di persone nella fabbrica del futuro (Guerini e Associati, 2017), che racconta le vicende di quattordic­i Faussone del nostro tempo, alle prese con la quarta rivoluzion­e industrial­e. Uomini veri e donne vere, che del personaggi­o letterario condividon­o l’idea che «fare un lavoro senza niente di difficile, dove tutto vada sempre per diritto, dev’essere una bella noia. E alla lunga fa diventare stupidi». Loro, che come Faussone vivono di sfide, di cambiament­i continui e di continuo aggiorname­nto, questo rischio davvero non lo corrono.

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Da sinistra: Primo Levi (Torino, 1919-1987), testimone straordina­rio dell’orrore di Auschwitz, assieme allo scrittore americano Philip Roth (1933)
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