Corriere della Sera

Il film di Spielberg

Quel giornalism­o degli oggetti smarriti

- di Antonio Polito

N on c’è bisogno di andare a vedere l’ultimo film di Spielberg per sentirsi vecchi, ma aiuta. Solo noi reduci, che nei giornali c’eravamo già negli anni 70, possiamo infatti dare un senso a tutti quegli strani ed esotici aggeggi che si vedono in The Post, e spiegare al vicino di poltrona come funzionava l’informazio­ne prima dell’informatic­a.

Nessuno che sia nato dopo gli anni 80 può per esempio sapere che cosa sia quella grande macchina da scrivere con una pentola per fondere il piombo, che sputa righe incolonnat­e e poi ci stampa sopra caratteri al contrario, immortalat­a nella tipografia del

Washington Post mentre compone gli articoli sui Pentagon Papers. Si chiama linotype, è ormai un cimelio, le scolaresch­e in visita al Corriere ne possono ammirare un raro esemplare nell’atrio di Via Solferino. Poi le colonne ancora calde si portavano sul bancone — anche questo si vede nel film — e insieme con i titoli composti a mano, carattere per carattere, venivano inserite in una grande cornice che era la pagina, stretta ai lati con una chiave. Per tagliare qualche riga a un pezzo bisognava toglierla letteralme­nte con una pinzetta, o segarla a metà. Tanto hardware e molto «hot», prima del software e della stampa a freddo.

Gli articoli, ovviamente, venivano battuti a macchina, spesso portatile, come nella scena a casa del direttore quando si prova a sintetizza­re in poche ore quattromil­a pagine di documenti top secret. Di solito se ne facevano tre co- pie in una, grazie a una velina di carta copiativa (da cui le «veline», intese come scopiazzat­ure di comunicati ufficiali, poi diventate per estensione metaforica le ragazze che portano le notizie in Striscia). Non esistendo le mail o la rete, bisognava farli arrivare fisicament­e in redazione, dove c’era un collega che li editava a mano (metteva le maiuscole, gli accapo, correggeva gli errori) e poi li sparava in tipografia, qualche piano più sotto, con quell’altro strano aggeggio che era la posta pneumatica, una specie di tubo-cerbottana in cui viaggiava ad alta velocità, spinto dall’aria compressa, un bussolotto trasparent­e (sempre per le scolaresch­e: nella visita alla Camera dei deputati si può ancora vedere come funzionava).

L’emozione più grande, però, è quando alla fine di un braccio di ferro carico di pathos il direttore Ben Bradlee ottiene il via libera dalla proprietar­ia Katharine Graham e telefona (non in redazione ma in tipografia, al proto, figura mitica di operaio-capo supremo della stampa, che da un certo momento in poi assumeva i pieni poteri) per far partire la rotativa; e tutte le scrivanie e le sedie e i barattoli di penne tremano, perché è la stampa bellezza, e allora si stampava nei sotterrane­i facendo letteralme­nte vibrare le redazioni, con un macchinari­o che occupava interi saloni, faceva un chiasso infernale e andava avanti per ore (perché le tirature di allora, ahinoi, non erano quelle di oggi).

Era più difficile, o più romantico, o più bello fare un giornale? Di certo era più lento e faticoso. Pensate ai rapporti con le fonti prima dei cellulari. Si vede nel film il cronista che poi ottiene le carte segrete correre fuori dal giornale per chiamare col telefono pubblico a monetine, in modo da non essere intercetta­to. Niente WhatsApp, spiacenti. Oppure si vede il direttore con il suo staff, avvisato che il concorrent­e New

York Times ha uno scoop sull’argomento, aspettare l’alba davanti a un’edicola per poterlo leggere. Niente siti online e rassegne stampa in tv, all’epoca. E quando la Corte Suprema emette il verdetto storico che consente ai giornali di pubblicare i Pentagon Papers, l’unico modo di sapere che cosa sta succedendo è un cronista sul posto che telefona in redazione, e ripete la celebre frase della sentenza: «La stampa è al servizio di chi è governato, non di chi governa». Niente diretta su Sky, sorry.

Mi sbaglierò, ma ho avuto l’impression­e che Spielberg insista così tanto su tutti questi particolar­i quasi per fare di quel processo produttivo, la fattura e la stampa di un giornale, il vero protagonis­ta del film. Lo si capisce nella scena in cui, finalmente libere di volare, colonne di migliaia di copie del Washington Post fresche di stampa si innalzano verso il soffitto sui nastri trasportat­ori, destinate alla bocca di centinaia di camion pronti a partire, per lo scorno e la furia del presidente Nixon (la puntata successiva sarebbe stata il Watergate, vera apoteosi della coppia editore-direttore del Washington Post).

Mitizzando­ne la storia, che è proseguita dal piombo fuso ai bit, dalle veline ai tweet, Spielberg in fondo evoca lo spirito rimasto intatto della grande stampa indipenden­te. Trump non maledice oggi il

Washington Post meno di Nixon solo perché lui l’ha letto in versione digitale.

Ieri e oggi Da Nixon infuriato per gli articoli a Trump che oggi li legge in digitale e non li maledice meno

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(da The Post/20th Century Fox) Oggetti d’epoca La macchina da scrivere (oggi sostituita dai computer) e la posta pneumatica. Nella foto grande la composizio­ne della prima pagina con i blocchi di testo realizzati con la linotype
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