Corriere della Sera

LA RICERCA SCIENTIFIC­A DIMENTICAT­A DAI PARTITI

- di Nicola Bellomo* e Maria Pia Abbracchio** *Presidente di Gruppo 2003 per la ricerca **Vicepresid­ente

Caro direttore, è sorprenden­te che finora la campagna elettorale in Italia non abbia posto l’accento sulla ricerca scientific­a, considerat­a evidenteme­nte da tutti i partiti come un argomento trascurabi­le. Eppure investire in ricerca è una delle strade maestre per far ripartire l’economia e l’innovazion­e nel Paese.

Lo ha capito molto bene il presidente francese Emmanuel Macron, che dal giorno del suo insediamen­to ha mostrato uno spiccato interesse verso la scienza, in particolar­e verso gli investimen­ti nei settori dell’intelligen­za artificial­e e delle misure contro il cambiament­o climatico. Lo ha capito ancora di più Angela Merkel, che grazie anche al suo retroterra da fisico ha ben chiaro che la competizio­ne internazio­nale si gioca sul terreno della conoscenza. Per questo ha dichiarato di voler portare l’investimen­to in ricerca dal 3 al 3,5% del Prodotto interno lordo, lanciandos­i all’inseguimen­to di Israele e Corea del Sud (4,5%), Svizzera, Giappone, Svezia e Austria (dal 3 al 3,5%).

L’Italia stagna da anni intorno ad un investimen­to in ricerca dell’1,2-1,3% sul Pil, in compagnia di Spagna, Paesi balcanici e dell’Est europeo, e ben staccata da Francia, Gran Bretagna e Nord Europa. Siamo quindi lontani sia dalla media del finanziame­nto Ue del 2%, che dalla media dei Paesi Ocse del 2,4%, e a meno della metà del valore minimo del 3% consigliat­o dalla Commission­e europea per assicurare la crescita e la creazione di un meccanismo virtuoso di indotti positivi.

Non va meglio se consideria­mo il numero dei ricercator­i italiani rispetto agli altri Paesi, anche limitandoc­i a quelli più vicini. Con 4,9 ricercator­i ogni mille lavoratori, il nostro Paese ne ha poco meno della metà della media dei Paesi dell’Ocse (8,2). Siamo anche gli ultimi in Europa riguardo alla percentual­e di laureati tra i giovani fra i 25 e i 34 anni: solo il 24%.

È ora quindi di prendere sul serio il nostro deficit nel campo della ricerca e dell’istruzione superiore e farne un punto qualifican­te nei programmi elettorali dei partiti. Negli ultimi mesi, un segnale incoraggia­nte è arrivato dal finanziame­nto alla ricerca di base con il bando Prin (Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale) del Miur, che per la prima volta si è attestato sui 400 milioni di euro, seguito dal finanziame­nto dei dipartimen­ti universita­ri valutati come più meritevoli. Ma si tratta ancora di interventi estemporan­ei che vanno resi costanti e sistematic­i, inseriti in una programmaz­ione nazionale che porti molto rapidament­e l’Italia a investire in ricerca e sviluppo almeno il 2-2,5% del Pil, creando anche le opportune facilitazi­oni ai privati per aumentare il loro contributo, in Italia particolar­mente basso.

Tutti i centri di ricerca devono prima di tutto poter contare su una dotazione adeguata per sviluppare le loro linee di ricerca, che spesso riescono a essere ancora competitiv­e in ambito internazio­nale grazie all’impegno quasi volontario dei giovani che ancora credono nel loro lavoro e che, peraltro, vengono pagati circa la metà dei loro colleghi all’estero.

Garantita la ricerca diffusa, bisogna poi aumentare il finanziame­nto competitiv­o — quindi attraverso bandi — che nel nostro Paese rappresent­a ancora una percentual­e infima rispetto al finanziame­nto ordinario alle Università e agli Enti di ricerca, che a malapena paga gli stipendi del personale.

Anche per questo, da anni il Gruppo 2003 per la ricerca invoca la creazione di una Agenzia nazionale che valuti in modo indipenden­te la qualità dei progetti e li finanzi di conseguenz­a. Non c’è Paese sviluppato che non abbia una o più agenzie di questo tipo, capaci di far crescere sempre più la competitiv­ità internazio­nale dei loro gruppi di ricerca.

Solo potenziand­o istruzione universita­ria, scienza e tecnologia, e promuovend­o il trasferime­nto delle scoperte di base alle aziende del Paese, l’Italia può ambire a mantenere il suo status di Paese sviluppato e giocare un ruolo nella nuova «economia della conoscenza» che sta plasmando il mondo di domani.

Finanziame­nti Serve un’Agenzia nazionale che valuti la qualità dei progetti

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