Corriere della Sera

Una scelta insensata nel Giorno del ricordo

- di Gian Antonio Stella

«D a quella volta / non l’ho rivista più, / cosa sarà / della mia città...». Sono passati quasi settant’anni da quando il grande Sergio Endrigo compose «1947», la sua canzone più struggente. Dove piangeva l’addio della sua famiglia a Pola. Sono tanti, settant’anni. E da tempo i sopravviss­uti all’esodo che vide 350 mila italiani andarsene dall’Istria, dal Quarnero, dalla Dalmazia hanno elaborato il lutto e vivono la ricorrenza del 10 febbraio, «Giorno del ricordo», con la malinconia, la tenerezza, il rimpianto di quella stupenda canzone. Senza più quei sentimenti di rancore per l’ingiustizi­a subita con la brutale e feroce cacciata dalle terre abitate per secoli. Certo, è impossibil­e cancellare la memoria delle foibe: storicamen­te guai a dimenticar­e. Ma ormai, grazie a Dio, è cambiato il mondo. Che senso ha, allora, la scelta dei Cobas, del Comitato cittadino antifascis­ta, del Centro documentaz­ione popolare e del collettivo «Loro bipartisan, noi per sempre partizan» di indire a Orvieto un «Presidio antifascis­ta» proprio il 10 febbraio, nel «Giorno del ricordo»? Che senso ha gettar sale su antiche ferite? E allegare alla iniziativa una «Mostra fotografic­a “testa per dente”. Crimini fascisti in Jugoslavia dal 1941 al 1945» che richiama la famigerata «circolare N.3c» del generale Mario Roatta che incitava alla rappresagl­ia più brutale (non «dente per dente» ma «testa per dente») contro i partigiani titini? Certo, chi non guarda la storia col paraocchi sa che i fascisti nell’allora Jugoslavia ne fecero di tutti i colori. Ed è giusto ricordare la storia tutta intera: torti e ragioni. Dall’una e dall’altra parte. Ma buttar lì una forzatura come questa il 10 febbraio non c’entra niente con l’appello a rileggere nel loro complesso le vicende di quelle terre straziate. È solo uno sfregio ai tantissimi esuli che, cacciati dalle loro case, vengono accomunati ancora alle camicie nere. Una stupidaggi­ne offensiva. Meglio sarebbe ricordare il dramma di Fulvio Tomizza, figlio di un italiano e di una slava: «Mi sono sempre sentito tra due fuochi. Mi accorgevo con dolore che i miei amici croati e sloveni mi guardavano con sospetto e nello stesso tempo non riuscivo a stare tutto dalla parte di mio padre. Non sono mai riuscito ad odiarli, gli slavi. Nonostante tutto quello che avevano fatto a mio padre e alla nostra gente. Forse perché sapevo che se era successo tutto quel disastro era anche colpa nostra. (…) E io lì, a cercare di ricucire le due parti di me stesso».

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