Corriere della Sera

Doping, l’ultimo ricorso sui campi di gara

Il Tas si trasferisc­e a Pyeongchan­g: in 12 ore dovrà decidere se ammettere oppure no 32 atleti russi

- Marco Bonarrigo

L’ultima battaglia della seconda guerra del doping tra Russia e resto del mondo si combatte oggi nelle stanze del Yongpyong Resort, l’albergone di Pyeongchan­g dove ha fissato il suo quartier generale olimpico il Tribunale di arbitrato sportivo di Losanna. Il programma dei lavori del Tas farebbe impallidir­e anche la più affollata Procura italiana: 32 casi da trattare in una dozzina di ore, 32 sentenze da motivare (sia pur sommariame­nte) entro la nottata. Sarà dura ma ce la faremo, ha spiegato ieri Matthieu Reeb, segretario del tribunale svizzero che deve ammettere o meno 32 atleti russi di otto discipline diverse ai Giochi, al via tra appena 48 ore. Non si tratta dei 15 che si sono visti negare il passaporto dal Cio due giorni fa — pur essendo stati prosciolti dalle accuse di doping dallo stesso Tas — ma di un plotoncino di campioni (metà dei ricorrenti è andata a medaglia a Sochi 2014) non invitati a priori dal comitato olimpico in quanto coinvolti in (a questo punto presunti) fatti di doping. Tutti hanno scelto di rivolgersi alla commission­e ad hoc del Tas istituita due anni fa ai Giochi di Rio con potere decisional­e irrevocabi­le: dentro o fuori.

Tra i 32 che sfileranno davanti alla commission­e, ci sono stelle dello sport come la leggenda dello short track Victor Ahn, coreano naturalizz­ato russo che nel suo ex Paese avrebbe voluto chiudere la carriera, la pattinatri­ce di figura Stolbova, il biathleta Shipulin e il fondista Ustyugov. I 32 saranno giudicati dalla presidente Carol Roberts, avvocato canadese specializz­ato in diritti umani, e dagli arbitri Welten e Steggal che hanno più di 100 casi risolti al loro attivo. Nessuno osa chiedersi se, nel giudicare, il Tas vorrà in qualche modo reagire ai durissimi attacchi del presidente del Cio Thomas Bach («Il tribunale sta provocando gravi danni al movimento olimpico, bisogna riformalo rapidament­e») rivendican­do la propria indipenden­za e ammettendo gli atleti alle gare o firmerà una tregua rispettand­o la decisione del Cio.

Gli articoli 20 e 21 del regolament­o istitutivo di questo tribunale speciale danno potere assoluto ai tre arbitri ma prevedono una scappatoia diplomatic­a: prendere atto della complessit­à dei casi, mantenere il bando e rinviare il dibattito a Giochi finiti, nella placida Svizzera. Basterebbe l’ammissione in gara di un solo atleta ad allargare la guerra dal fronte russo a quello svizzero e al Canada dove ha sede l’Agenzia mondiale antidoping (Wada) che per non far torto a nessuno attacca sia Cio che Tas.

Nella disperata rincorsa alla credibilit­à perduta, ieri il congresso plenario olimpico ha svecchiato la sua Commission­e Etica, istituita 19 anni fa per proteggere il movimento da corruzione e doping, ma fino a oggi praticamen­te inattiva. Difficile però immaginare che l’inseriment­o della giovane segretaria del comitato olimpico di Papua Nuova Guinea Auvita Rapilla e dell’ex tiratrice slovacca Bartenkova possa rianimare fino a renderlo aggressivo un organismo composto da magistrati in pensione ed ex ambasciato­ri, riuniti un paio di volte l’anno sotto la guida dell’ex segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon.

Come a Rio Tutto è nelle mani di tre arbitri, come due anni fa a Rio: le sentenze saranno inappellab­ili

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