Corriere della Sera

TENDENZE ELETTORALI NON COLTE

- di Aldo Cazzullo

Ai primi di febbraio di settant’anni fa, Pio XII riceveva un medico quarantenn­e, anticomuni­sta se ce n’era uno, già presidente dei giovani dell’azione cattolica durante il fascismo. La situazione è grave; i comunisti sono i favoriti delle elezioni imminenti; bisogna muoversi, risvegliar­e gli ignavi, motivare gli indecisi. Il Papa lo guarda dritto negli occhi: «Lei, Gedda, non aveva un progetto per istituire comitati civici a sostegno della Democrazia cristiana?». La suggestion­e di accostare il voto del prossimo 4 marzo a quello storico del 18 aprile 1948 è inevitabil­e, se non altro per la coincidenz­a temporale. Salvo subito impression­arsi per la sproporzio­ne; e non solo tra i protagonis­ti di allora e quelli di oggi. La vera grande differenza riguarda la partecipaz­ione popolare. Nel 1948 votò il 92% degli elettori; stavolta si rischia di non arrivare al 70. La Dc aveva 800 mila iscritti, il Partito comunista 2 milioni e 300 mila, sei volte più del Pd. I partiti avevano giornali, sezioni, scuole, e militanti infiammati. Le testimonia­nze parlano di una vera e propria febbre: passione, o almeno curiosità. «Si ascoltavan­o frasi incredibil­i, tipo “andiamo a sentire Scoccimarr­o a Rivoli”» ha raccontato con la consueta ironia Carlo Fruttero. Gli italiani scoprivano il gusto di seguire decine di voci, dopo vent’anni in cui avevano potuto ascoltarne una sola. I partiti erano giovani o appena rinati, non ancora vilipesi.

Si seguivano corsi precipitos­i per imparare a parlare in pubblico. Il comizio era un rito e una festa, spesso disturbata dagli avversari. I muri delle case si riempirono di manifesti fino al tetto. Scoppiavan­o risse tra gruppi di attacchini rivali; e anche al dodicenne Silvio Berlusconi, a quanto racconta, toccò qualche colpo per aver affisso le insegne della Dc («il resto me lo diede mia madre a casa, perché mi ero messo in pericolo»).

Il divario con il tempo presente non potrebbe essere più netto. L’ultimo grande comizio della politica italiana è stato quello di Beppe Grillo in piazza San Giovanni, la sera di venerdì 23 febbraio 2013, con il racconto del suo viaggio in Italia — «io non ce la faccio più a sopportare da solo tutto questo dolore...» — ; il pomeriggio Pier Luigi Bersani aveva chiuso la sua campagna nello storico teatro dell’avanspetta­colo romano, l’ambra Jovinelli. Quella notte almeno un milione di voti passò dal Pd ai Cinque Stelle. Stavolta pure Grillo si chiude a teatro, a pagamento, dopo essere tornato al mestiere di comico, cedendo forse provvisori­amente la leadership al giovane Di Maio.

Ovvio: il confronto è impossibil­e. L’italia del 1948 non aveva la rete e neppure la tv. Anche se esistevano già le fake news: il Pci ad esempio accusò sui volantini De Gasperi di aver gioito per l’impiccagio­ne di Cesare Battisti. Lo statista cattolico ci rimase malissimo. A Parma, mentre parlava in piazza, i comunisti srotolaron­o una gigantesca foto di Battisti sulla forca sbeffeggia­to dai soldati austriaci; De Gasperi se ne andò indignato. Per consolarlo, i democristi­ani diffusero un santino: «Sta sicuro che ad Alcide/ la Madonna gli sorride,/ che votar per lui ti dice/ la potente Ausiliatri­ce». È un periodo ben ricostruit­o in un libro appena pubblicato dal Mulino, «1948», di Mario Avagliano e Marco Palmieri. La mobilitazi­one degli intellettu­ali fu impression­ante. Per il

Fronte popolare si espressero personaggi della statura di Umberto Saba, Salvatore Quasimodo, Corrado Alvaro, Carlo Carrà, Alberto Savinio, Arturo Carlo Jemolo, Giorgio Bassani. Ma la Dc aveva dalla sua Giuseppe Ungaretti, Gino Bartali, Alberto Sordi. Contro il Fronte si mobilitaro­no Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Ignazio Silone.

Stavolta intellettu­ali, scrittori, artisti sembrano insolitame­nte silenti. Disgustati o disinteres­sati, non si sa. Fedez ha scritto l’inno dei Cinque Stelle. Qualche cantautore voterà a sinistra per antica abitudine. Per conoscere l’orientamen­to di qualche uomo di sport occorre rispolvera­re il pugno chiuso dell’ex centravant­i Sollier, che ora sostiene «Potere al popolo». La cifra della campagna pare la noia, unita al fastidio per la volgarità del linguaggio, l’assurdità delle promesse, la spregiudic­atezza

nell’usare tragedie come quella di Macerata. Certo, per quanto il voto resti molto importante, non è in gioco una scelta epocale come quella del 1948, quando si doveva decidere tra Stalin e il Papa (o addirittur­a Dio secondo la battuta di Guareschi), tra il comunismo sovietico e la democrazia occidental­e. È davvero difficile trovare similitudi­ni. Tranne una.

L’esito delle elezioni del 18 aprile non era affatto scontato. L’ultimo test, le amministra­tive del 15 febbraio a Pescara, aveva visto una netta affermazio­ne dell’alleanza tra comunisti e socialisti. Poi si mise in moto una tendenza sotterrane­a, che portò alla grande vittoria nazionale della Dc. È un fenomeno che oggi tende a ripetersi: negli ultimi giorni prima del voto si crea una dinamica che i sondaggi faticano a intercetta­re. Nel 2013 nessuna rilevazion­e dava Grillo al 25%; lo si pensava dieci punti sotto. Quasi nessuno vide arrivare la Brexit e Trump. Lo stesso Macron ha battuto Marine Le Pen con un margine più ampio del previsto.

Ora il discorso politico è incentrato sulle larghe intese. Da mesi il Palazzo si prepara. Non va trascurato però l’effetto moltiplica­tore dell’uninominal­e, dove la prima coalizione prende tutto; e la prima coalizione sarà il centrodest­ra. Del resto spira un vento di destra in tutta Europa. La vera incognita è la dimensione del successo dei Cinque Stelle al Sud: se non sarà sufficient­e a conquistar­e molti collegi uninominal­i, Salvini e Berlusconi per quanto litigiosi potranno ritrovarsi — pur senza sfondare — con la maggioranz­a assoluta, o quasi. Quanto alla sinistra, rischia una sconfitta storica. Proprio come nel 1948. Quando se non altro superò il 30%.

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