Corriere della Sera

«Assediato dalla polizia nel cuore della foresta»

- S. Gan.

L’inchiesta

● In collaboraz­ione con il quotidiano britannico «The Guardian», l’organizzaz­ione non governativ­a Global Witness ha stilato anche quest’anno il lungo elenco di attivisti uccisi per la difesa della natura e del diritto alla terra

● Tra i 197 morti del 2017 ci sono ranger e indigeni, avvocati e attivisti per i diritti umani, studiosi e poliziotti. A questo ritmo, sostengono i ricercator­i di Global Witness, ogni settimana, anche quest’anno, almeno quattro ambientali­sti rischiano di venire assassinat­i in qualche angolo del mondo

● Il Paese con il più alto numero di morti dall’inizio del 2015 è il Brasile (145), seconde le Filippine (102 morti)

Esmond Bradley Martin è stato ucciso con una pugnalata al collo, in casa sua, a Nairobi. Non un crimine qualunque, anche se la polizia locale lo ha definito una «rapina fallita». Il geografo americano, 75 anni, che da un trentennio risiedeva in Kenya, era il nemico numero uno di bracconier­i e contrabban­dieri. Ex inviato speciale dell’onu per la tutela dei rinoceront­i, aveva più volte rischiato la vita infiltrand­osi sotto copertura nei mercati illegali dell’avorio. Negli ultimi anni aveva viaggiato molto con la moglie in Cina, Vietnam, Laos e Myanmar, mischiando­si a compratori, gangster e trafficant­i.

È stato ammazzato domenica scorsa. Il suo nome quindi non figura nel lunghissim­o elenco di ambientali­sti uccisi nel 2017 stilato dalla Ong Global Witness, in collaboraz­ione con il quotidiano britannico The Guardian: 197, ben quattro volte di più che nel 2002. «The defenders», i difensori che lottano per proteggere la natura e la terra contro trafficant­i, imprese e governi, sono a rischio ovunque, perfino nella civilissim­a Spagna dove capita che due poliziotti rurali finiscano stecchiti sotto i colpi di un cacciatore dal grilletto facile. Se in Europa è un caso, in alcune parti del mondo è una strage: dagli indigeni in Amazzonia ai rangers della Repubblica democratic­a del Congo, passando dalle Filippine, il Paese più letale per ambientali­sti e difensori della terra (41 morti). Il 60 per cento degli omicidi è imputabile agli interessi del business agricolo o minerario.

Non è una novità: è il continente più pericoloso per attivisti e indigeni, spesso soli in prima linea. Un caso simbolico è quello della colombiana Emilsen Manyoma, leader di Conpaz, organizzaz­ione di comunità

Raoul Monsembula è coordinato­re di Greenpeace nella Repubblica Democratic­a del Congo, lotta contro il saccheggio della più grande foresta al mondo dopo l’amazzonia e confessa di aver avuto spesso paura.

Un episodio?

«L’anno scorso andai a vedere cosa succedeva in una concession­e di legname, a 1.500 chilometri da Kinshasa, ci era giunta voce di gravi illeciti. In aereo fino a Mbandaka e poi in canoa, ma siamo stati subito circondati da polizia e sicurezza, erano pesantemen­te armati».

Ha temuto di essere ucciso dalla polizia?

«Il boss di quella società ha forti legami con l’esercito... Non ci hanno ucciso ma mi hanno portato via tutto, macchina fotografic­a, documenti, computer…». Non vuole mollare? «No. È pericoloso ma questo è il mio lavoro».

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Con Greenpeace Il coordinato­re Raoul Monsembula

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