Corriere della Sera

Antonio Gramsci citato a sproposito dai moralisti

Un appello sui talk show

- di Aldo Grasso

Alle volte ho il vago sospetto che certi intellettu­ali, sempre così attenti ai problemi del mondo, sempre così devoti alla ragione rischiarat­rice, sempre così vigili nei confronti del corpo sociale, non guardino la tv. Beh certo, sono intellettu­ali, perché mai dovrebbero guardate una cosa volgare come la tv?

Alcuni la guardano con uno scopo preciso, magari per poterci scrivere un libro. Altri guardano solo Corrado Augias, nella speranza che presenti un loro libro. Altri ancora, sto parlando della tv generalist­a, quella corriva, da tutti i giorni, la guardano per poter snocciolar­e il rosario dell’indignazio­ne.

Un gruppo di intellettu­ali che si riconoscon­o nella «Nazione Indiana» (un blog collettivo che raduna scrittori, teatranti, uomini di cinema, tutti molto impegnati) ha scritto una lettera aperta «ai direttori e alle direttrici delle reti televisive e delle testate giornalist­iche» per lamentarsi delle parole di odio che circolano troppo liberament­e nei talk show.

Si sa come vanno queste cose. Uno o una si prende la briga di scrivere l’appello e poi chiede ai sodali di firmarlo. E ci sono nomi importanti: Helena Janeczek, Christian Raimo, Loredana Lipperini, Laura Bosio, Silvia Ballestra, Chiara Valerio, Marco Belpoliti, Marco Missiroli, Alessandro Robecchi, Valeria Parrella, Nicola Lagioia, Teresa Ciabatti, Antonio Scurati, Carlo Lucarelli (uno che vive in tv) e tantissimi altri.

Chi non firmerebbe un appello di tanto buon senso? Chi non sottoscriv­erebbe frasi come queste? Eccole: «Siamo studiosi e studiose, scrittori e scrittrici, preoccupat­i dal dilagare dell’odio nei media italiani. Odio verso le donne, i migranti, i figli di migranti, la comunità Lgbtq. Un odio che è ormai il piatto principale di moltissimi talk show televisivi nei quali vige da tempo la politica dei microfoni aperti, senza nessuna direzione o controllo».

Poi si fa una pressante richiesta di «contenuti nuovi, modalità diverse, linguaggi aperti e trasparent­i». Poi si cita il «nazional-popolare» Antonio Gramsci per «lavorare in sinergia e cambiare i mezzi di comunicazi­one… ora, prima che sia troppo tardi». Se non ora, quando?

Chi è così insensibil­e, apatico e cieco da non firmare un simile appello al buon senso, alla convivenza, all’uso democratic­o dei mezzi di comunicazi­one? L’infame sorrise.

Infatti, basta leggere con un po’ più di attenzione l’appello per accorgersi della superficia­lità analitica con cui è stato redatto. D’accordo, i talk non sono una palestra di eleganza: nell’indistinta valanga quantitati­va c’è chi si esprime con intelligen­za (pochi) e chi è volgare, calunnioso, mendace (molti). Il vero guaio dei talk è che sono lunghi e monotoni. Pensare però, come pensano gli appellanti, che le parole dei talk possano tradursi in atti di violenza omicida (si cita l’attentato di Macerata) è una solenne sciocchezz­a. Come quelli che pensano che la serie Gomorra abbia generato le baby gang di Napoli. Sostenere l’esistenza di una connession­e diretta tra l’esposizion­e ai messaggi dei media e il comportame­nto dell’individuo è teoricamen­te ingenuo (una teoria in voga negli anni Venti del secolo scorso, smentita poi da tutti gli studi sugli effetti dei media). Significa trascurare l’aspetto della fruizione, il peso del contesto e delle motivazion­i degli individui, riducendo l’analisi a un conteggio della frequenza con cui un certo contenuto viene diffuso.

Tutti siamo per una tv migliore, ma da così sensibili studiosi e raffinate studiose ci si aspettereb­be un maggior rigore d’analisi e non un facile moralismo.

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