Corriere della Sera

L’INTERVISTA Calamity Jane

DOROTHEA WIERER

- DALLA NOSTRA INVIATA

L’occhio grigio da gatta, infilato dentro un mirino protetto dal paraocchi tricolore, manda lampi di rimmel. «Tanta gente aspetta solo che io dica qualcosa di sbagliato». Non è mai successo e non succederà nemmeno nel gelo di quest’olimpiade azzurra che si avvia sparando: «Io, altoatesin­a, non gareggerei mai per l’austria. Come lo devo dire? Sono italianaaa­a». Ricevuto, Calamity Jane. È Dorothea Wierer, una vittoria in Coppa e cinque podi stagionali, sabato nella sprint del biathlon, la nostra prima vera occasione di medaglia.

Dorothea, a 27 anni questa è la sua Olimpiade.

«Sì, non mi nascondo. A Sochi ero una ragazzina, non avevo podi individual­i alle spalle, ero in Russia per fare esperienza. In quattro anni è cambiato tutto».

Cosa, per esempio?

«Tutti si aspettano qualcosa da me. Non voglio mettermi troppe pressioni ma, se sto bene, il risultato arriva».

Al poligono è diventata quasi infallibil­e.

«Il tiro è un fattore mentale: più sei tranquilla, meglio spari. In autunno ho cambiato un pezzo di canna del fucile, lì dove esce il colpo: sembra una sciocchezz­a invece per noi biathleti è fondamenta­le. Il problema di Pyeongchan­g...».

Lasci indovinare: è il freddo.

«Speriamo che si scaldi sennò sparare al gelo è un guaio: con le mani ghiacciate perdi sensibilit­à e, quindi, stabilità. E per di più in Corea non c’è nessuna cultura dello sci nordico».

Ma il tiro perfetto esiste? «Certo che sì: quando non devi pensarci, ti fermi e, pam, spari. Quando è tutto automatico. Quello per me è il momento di adrenalina più alto,

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