Corriere della Sera

Ma resta poco su merito e lotta alla supplentit­e

- di Gianna Fregonara

Non c’è dubbio, come dice la ministra Marianna Madia, che siglare il contratto dopo nove anni «sia giusto e doveroso», ma è difficile dare torto al presidente dei presidi Antonello Giannelli quando si lamenta per «un’occasione di rinnovamen­to sacrificat­a sull’altare dell’imminente appuntamen­to elettorale». I sindacati, che pure riescono a dividersi al momento della firma, portano a casa un contratto che un anno e mezzo fa, quando ancora la riforma della scuola puntava su autonomia, presidi, merito e selezione come nuove chiavi per rilanciare il sistema educativo, sarebbe stato impensabil­e. A parte gli aumenti, più ricchi del previsto, come sottolinea la ministra Fedeli, in questo testo di 178 pagine è più quel che manca a essere significat­ivo. I soldi del merito finiscono per un terzo in aumenti a pioggia: si può essere contro l’idea di premiare solo una parte dei docenti, ma così aveva deciso la maggioranz­a in Parlamento. Tra il dare una mancia e stabilire criteri oggettivi per gli aumenti c’è differenza. La riforma doveva mettere fine alla «supplentit­e»: tra le altre misure i docenti avrebbero dovuto rimanere nella stessa scuola per tre anni almeno. Era il principio della «continuità didattica» per gli studenti, che oggi diventa un effetto collateral­e del compromess­o trovato a tarda notte: resta nella stessa scuola solo chi ha ottenuto proprio il trasferime­nto che voleva, gli altri insegnanti possono muoversi di anno in anno. È dimostrato che avere insegnanti contenti e più appagati a fine mese fa bene anche agli studenti. E si sono corrette alcune sbavature della nuova legge. Ma l’impression­e è che a furia di scolorire la riforma non si capisca più di che cosa si è parlato negli ultimi quattro anni.

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