SANREMO SPECCHIO D’ITALIA STATO SOCIALE SUPERSTAR
Sanremo è da sempre un indicatore sugli umori degli italiani. Seguii per il Corriere l’edizione del 2004, allo zenit dell’epoca berlusconiana: non a caso il direttore artistico era un vecchio sodale del premier, Tony Renis, nonostante qualche problemuccio («chi non ha avuto amici delinquenti?» disse Celentano). Si era sparsa anche la voce, ovviamente falsa, che Berlusconi sarebbe salito sul palco a cantare (arrivò invece la notizia, purtroppo vera, dell’ictus che aveva colpito Umberto Bossi). Nel 2011 invece vinse un cantautore di sinistra, Roberto Vecchioni, con una canzone dichiaratamente antiberlusconiana: al Cavaliere, di cui l’italia si stava stancando, restavano pochi mesi a Palazzo Chigi; e se allora qualcuno avesse predetto che sette anni dopo avrebbe rivinto le elezioni, sarebbe stato preso per matto. E comunque quando Crozza al festival del 2013, diretto da Fazio, alla vigilia del voto fece un’innocua parodia di Silvio, il pubblico rumoreggiò.
Questo è un festival poco politico, molto musicale. Le canzoni migliori però sono quelle di Baglioni. Età media degli ospiti un po’ altina. Un Gabbani non spunta ogni anno; stavolta la rivelazione è Lo Stato sociale, che andrà molto bene anche perché dello Stato sociale quello vero gli italiani hanno nostalgia. Un tempo i giornali guardavano a Sanremo un po’ dall’alto in basso, come a dire: andiamo a prenderli in giro. Con il tempo si è capito che il festival è una cosa seria, un termometro del Paese, un rito che unisce. Ne abbiamo davvero bisogno.